L’egemonia culturale della patacca e del fondo di bottiglia. Il pentastellismo dominante anticipato, nel 1993, da Robert Hughes



Poco più di cinquant’anni fa il poeta W.H. Auden riuscì in un’impresa che fa invidia a ogni scrittore: azzeccare una profezia. La profezia compare in un lungo lavoro intitolato For the Time Being: A Christmas Oratorio, là dove Erode medita sul compito ingrato di massacrare gli innocenti. D’animo fondamentalmente tollerante, egli ne farebbe volentieri a meno. E tuttavia, dice, se si consente a quel bambino di scamparla,

«Non occorre essere profeti per prevedere le conseguenze ...

«La Ragione sarà sostituita dalla Rivelazione ... La conoscenza degenererà in un tumulto di visioni soggettive – sensazioni viscerali indotte dalla denutrizione, immagini angeliche suscitate dalla febbre o dalle droghe, sogni premonitori ispirati dallo scroscio di una cascata. Compiute cosmogonie nasceranno da dimenticati rancori personali, intere epopee saranno scritte in idiomi privati, gli scarabocchi dei bambini innalzati al di sopra dei più grandi capolavori ...

«L’Idealismo sarà scalzato dal Materialismo ... Sviato dal normale sfogo nel patriottismo e nell’orgoglio civico o familiare, il bisogno delle masse di un Idolo visibile da venerare si incanalerà in alvei totalmente asociali, dove nessuna forma di istruzione potrà raggiungerlo. Onori divini saranno resi a lievi depressioni del terreno, animali domestici, mulini a vento diroccati o tumori maligni.

«La Giustizia, come virtù cardinale, sarà rimpiazzata dalla Pietà, e svanirà ogni timore di castigo. Ogni scapestrato si congratulerà con se stesso: “Sono un tal peccatore che Dio è sceso di persona per salvarmi”. Ogni furfante dirà: “A me piace commettere crimini; a Dio piace perdonarli. Il mondo è davvero combinato a meraviglia”. La Nuova Aristocrazia consisterà esclusivamente di eremiti, vagabondi e invalidi permanenti. Il becero dal cuore d’oro, la prostituta consunta dalla tisi, il bandito affettuoso con sua madre, la ragazza epilettica che comunica con gli animali saranno gli eroi e le eroine della Nuova Tragedia, mentre il generale, lo statista, il filosofo diverranno zimbello di satire e farse».

Ciò che Erode antivedeva era l’America degli ultimi anni Ottanta e dei primi anni Novanta. Un paese ossessionato dalle terapie e pieno di sfiducia nella politica formale; scettico sull’autorità e preda della superstizione; corroso, nel linguaggio politico, dalla falsa pietà e dall’eufemismo. Simile alla tarda romanità (e non all’Urbe del primo periodo repubblicano) per la vastità della sua sfera imperiale, la corruzione e la verbosità dei suoi senatori, l’affidarsi alle oche sacre (pennute antenate dei nostri demoscopi e opinionisti di parte) e l’assoggettarsi a senili imperatori divinizzati, dominati da astrologi e mogli dissipatrici. Una cultura che ha sostituito gli spettacoli dei gladiatori, come strumento per sedare le folle, con guerre ultratecnologiche teletrasmesse, che causano massacri enormi e tuttavia lasciano intatto il potere dei satrapi mesopotamici sui loro sventurati sudditi.

A differenza di Caligola, l’imperatore non fa senatore il suo cavallo; lo incarica della tutela dell’ambiente, o lo nomina alla Corte Suprema. A opporsi sono principalmente le donne, perché gli uomini, grazie all’ampia diffusione dei culti misterici, se ne vanno nei boschi ad affermare la propria virilità, annusandosi le ascelle a vicenda e ascoltando le ciance di poeti di terz’ordine sul satiro peloso e umidiccio che alberga in ognuno di loro. Chi brama il ritorno della Sibilla delfica dispone di Shirley MacLaine, mentre un guerriero Cro-Magnon vissuto trentacinquemila anni fa, di nome Ramtha, prende dimora in una bionda casalinga della West Coast, avviando un giro di milioni e milioni di dollari tra seminari, cassette e libri cultuali.

Frattanto gli artisti oscillano tra un’espressività in larga misura autocompiaciuta e una politicizzazione per lo più sterile; e la gara tra istruzione e televisione – tra argomentazione e imbonimento spettacolare – è stata vinta dalla televisione, che in America non era mai scesa a un livello tanto basso. Anche le arti popolari, già meraviglia e delizia del mondo, sono decadute; c’è stato un tempo, a memoria di alcuni di noi, in cui la musica popolare americana era esaltante, struggente, spiritosa, e seduceva gli adulti. Oggi, al posto della cruda intensità di Muddy Waters o della vigorosa inventiva di Duke Ellington, abbiamo Michael Jackson, e da George Gershwin e Cole Porter siamo scesi a musical da analfabeti, che parlano di gatti o della caduta di Saigon. Il grande rock-’n’-roll americano si è supertecnologizzato e, passato nel tritacarne delle corporations, è diventato al 95% un prodotto sintetico.

Per i giovani, sempre più, sono le varie forme di spettacolo a stabilire i riferimenti culturali e a creare la «verità» riguardo al passato. Milioni di americani, specie delle giovani generazioni, immaginano che la «verità» sull’assassinio di Kennedy risieda nel film di Oliver Stone, il vivido e menzognero JFK, con la sua paranoide elevazione di uno screditato procuratore distrettuale di New Orleans a eroe politico perseguitato da un malvagio e onnipresente apparato militare, che uccise Kennedy per farci restare in Vietnam. Quanti di loro hanno trovato da ridire sulle ripetute dichiarazioni di Stone, che pretende di aver «creato un contro-mito» da opporre alle conclusioni della Commissione Warren? Come se la conoscenza del passato si identificasse con la propagazione di un mito. Una volta le manipolazioni storiche di Hollywood – gli innocui polpettoni su Luigi XV o su Nelson, i pii pistolotti su Gesù – avevano poca importanza. Ma in tempi di docudrammi e simulazioni, quando la differenza tra TV e eventi reali si offusca sempre più – non per caso, ma per deliberata politica dei boss dei media elettronici –, simili operazioni si inseriscono in uno scenario limaccioso e ansiogeno di sospesa incredulità, del tutto assente nella pseudostoria della vecchia Hollywood.

Poi, dato che l’arte induce il cittadino sensibile a distinguere tra artisti di vaglia, artisti mediocri e assolute nullità, e dato che le ultime due categorie sono sempre più numerose della prima, bisogna politicizzare anche l’arte; eccoci dunque ad abborracciare metodi critici per dimostrare che, mentre sappiamo benissimo cosa intendiamo per qualità dell’ambiente, nell’esperienza estetica il concetto di «qualità» è poco più di una finzione paternalistica, intesa a rendere la vita difficile agli artisti negri, alle donne e agli omosessuali – i quali devono essere giudicati in base alla razza, al sesso e alla cartella clinica, e non ai meriti del loro lavoro.



Col diffondersi anche in campo artistico di una lacrimosa avversione all’eccellenza, la discriminazione estetica viene tacciata di discriminazione razziale o sessuale. Su questo argomento pochi prendono posizione, o rilevano che in materia d’arte «elitarismo» non vuol dire ingiustizia sociale e inaccessibilità. La vacca sacra della cultura americana è, attualmente, l’Ego: l’«autostima» è inviolabile, sicché ci affanniamo a trasformare le accademie in un sistema in cui nessuno può fallire. In questo spirito potremmo purgare il tennis dei suoi sottintesi elitari: basta abolire la rete.

Poiché la nuova sensibilità decreta che i nostri eroi saranno solo le vittime, il rango di vittima comincia a essere reclamato anche dal maschio americano bianco. Di qui la fortuna di terapie che insegnano che siamo tutti vittime dei nostri genitori; che non è colpa nostra se siamo scriteriati, venali o francamente scellerati, perché veniamo da «famiglie disfunzionali» – e, come si affrettano a precisare senza ombra di prove John Bradshaw, Melody Beattie e altri guru del «programma dei dodici passi»,a il 96% delle famiglie americane è disfunzionale. Abbiamo avuto modelli imperfetti di comportamento, abbiamo sofferto di mancanza d’affetto, siamo stati picchiati, o magari sottoposti alle voglie libidinose di papà; e se non ne siamo convinti è solo perché ne abbiamo rimosso il ricordo, e tanto più diventa urgente ricorrere all’ultimo libro del ciarlatano di turno.

Il numero di americani che da bambini hanno subìto violenze, e quindi sono assolti da ogni colpa per qualunque cosa facciano, è più o meno pari al numero di coloro che qualche anno fa erano la reincarnazione di Cleopatra o di Enrico VIII. Così l’etere è intasato di programmi-confessione in cui una parata di individui e di loro modelli comportamentali, da Latoya Jackson a Roseanne Barr,b si levano a denunciare le colpe vere o immaginarie dei genitori. Non essere consci di aver avuto un’infanzia infelice è, agli occhi di organizzazioni come Recovery, prova lampante di «denegazione»: l’assunto è che tutti l’hanno avuta, e sono pertanto potenziali fonti di reddito. Il culto del maltrattato Bambino-in-Noi ha una funzione molto importante nell’America d’oggi: ci informa che la lagnanza personale trascende l’espressione politica, e che la curva ascendente del narcisismo piagnone non interseca per forza la spirale discendente della vacuità culturale. Così la ricerca del Bambino-in-Noi ha preso piede proprio nel momento in cui gli americani dovrebbero scoprire dove si trovi in loro l’Adulto, e come mai quel trascurato vecchiardo sia sepolto sotto il ciarpame della psicologia pop e della gratificazione a breve termine. Ci immaginiamo un Eden interiore, e vogliamo rintracciarne l’inquilino di prima della Caduta: a ognuno il suo personale buon selvaggio.


da "La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto" di Robert Hughes

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