Terapia intensiva

Un racconto di James Ballard

Tra pochi minuti comincerà il prossimo attacco. Ora che mi trovo circondato per la prima volta da tutti i membri della mia famiglia mi sembra assolutamente necessario che questo evento irripetibile venga registrato nel modo piú completo. Mentre giaccio qui – appena in grado di respirare, la bocca piena di sangue e il minimo tremore delle mani riflesso dall’occhio attento della telecamera a due metri da me – mi rendo conto che ci saranno molte persone che considereranno la mia scelta dell’argomento quantomeno curiosa, ma questo film rivoluzionerà il concetto stesso di filmino amatoriale, e spero che chiunque si troverà a guardarlo possa ricavarne un’idea almeno minima dell’immenso affetto che provo per mia moglie, per mio figlio e mia figlia, e dell’affetto che a loro volta, nel loro modo particolare, essi provano per me. 

È trascorsa ormai mezz’ora dall’esplosione, e tutto in questo soggiorno un tempo elegante è piombato nel silenzio. Sono steso sul pavimento accanto al divano, e osservo la telecamera montata al sicuro, fuori portata, sul soffitto sopra la mia testa. In questa calma innaturale, interrotta solo dal respiro incerto di mia moglie e dal movimento irregolare di mio figlio sul tappeto, non può sfuggire come quasi tutto ciò che ho assemblato con tanto amore negli ultimi anni sia andato distrutto. Le mie porcellane di Sèvres giacciono in mille pezzi sul camino, le pergamene Hokusai sono sforacchiate in diversi punti. Ma nonostante i gravi danni questa è ancora la scena riconoscibile di una riunione di famiglia, benché di un genere tutto speciale. 

Mio figlio David è rannicchiato ai piedi di sua madre, con il mento appoggiato sul tappeto persiano a pezzi, i suoi lenti movimenti segnati da una serie di impronte sbavate. Di tanto in tanto, quando alza la testa, posso vedere che è ancora vivo. I suoi occhi mi scrutano, calcolando la distanza tra di noi e il tempo che gli occorrerebbe per raggiungermi. Sua sorella Karen è a poco piú di un braccio di distanza, stesa accanto alla lampada caduta tra il divano e il caminetto, ma lui la ignora. Nonostante la mia paura, provo un forte senso di orgoglio all’idea che abbia lasciato sua madre e intrapreso questo interminabile viaggio verso di me. Per il suo stesso bene preferirei che restasse disteso e conservasse quel poco di forza e di tempo che gli rimane, ma lui insiste con tutta la determinazione che il suo corpo di sette anni può concedergli. 

Mia moglie Margaret, che è seduta nella poltrona di fronte a me, alza la mano in un confuso gesto di avvertimento, e poi la lascia cadere inerte sul bracciolo di damasco macchiato. Distorto dallo sbaffo di rossetto, il breve sorriso che mi rivolge potrebbe sembrare allo spettatore casuale ironico o addirittura minaccioso, ma io sono ancora una volta travolto dalla sua incredibile bellezza. Guardandola, sollevato all’idea che probabilmente non si alzerà mai piú dalla sua poltrona, ripenso al nostro primo incontro di dieci anni fa, allora come adesso sotto lo sguardo benevolo della telecamera. 


L’idea insolita, per non dire illecita, di incontrare mia moglie e i miei figli in carne e ossa mi era venuta in mente tre mesi prima, durante una delle nostre colazioni insieme. Fin dai primi giorni del nostro matrimonio la domenica mattina era stata un momento particolarmente piacevole. Vi erano le gioie della colazione a letto, delle chiacchiere sui giornali e su tutto quanto era accaduto durante la settimana. Spostandoci su un canale privato, Margaret e io potevamo fare l’amore, celebrando la profonda pace dei nostri letti nuziali. Piú tardi coinvolgevamo anche i bambini e li guardavamo giocare nelle loro stanze, oppure li sorprendevamo promettendo loro una visita al parco o al circo. 

Tutte queste attività, naturalmente, come del resto la nostra vita famigliare, erano rese possibili dalla televisione. A quel tempo né io né nessun altro avevamo mai pensato che fosse possibile incontrarsi di persona. In realtà, esistevano ancora ordinanze tanto antiche quanto raramente invocate che lo impedivano – incontrare un altro essere umano era un’offesa inaccettabile (specialmente, per ragioni che allora non riuscivo a comprendere, un membro della propria famiglia, forse in applicazione di un qualche antico sistema di tabú contro l’incesto). La mia formazione, l’istruzione e la pratica medica, il corteggiamento di Margaret e il nostro matrimonio felice erano tutti accaduti dentro il generoso rettangolo dello schermo televisivo. L’inseminazione di Margaret era avvenuta artificialmente e come per tutti gli altri bambini gli unici contatti tra David e Karen e loro madre si erano verificati durante la loro breve vita nell’utero. 

Inutile dire che tutto ciò aveva comportato un immenso accrescimento della nostra esperienza umana. Da bambino ero stato cresciuto nel reparto maternità dell’ospedale, e mi erano stati cosí risparmiati tutti i rischi psicologici legati a una vita familiare fondata sull’intimità fisica (per non dire dei rischi, non solo estetici, di una igiene domestica condivisa). Ma ben lungi dall’essere isolato, ero sempre stato circondato da compagni. In televisione non ero mai solo. Dalla mia stanzetta, giocavo per ore con i miei genitori, che mi guardavano dalla comodità delle loro case, ed ero dotato di una grande quantità di videogiochi, cartoni animati, documentari sulla natura e telefilm sulla vita in famiglia che contribuivano ad aprirmi davanti il mondo intero. 

I miei cinque anni da studente di medicina erano trascorsi senza che avessi bisogno di vedere un solo paziente in carne ed ossa. Le mie nozioni di anatomia e fisiologia erano state acquisite al computer, e le tecniche piú avanzate di diagnosi e chirurgia avevano eliminato qualunque necessità di contatto diretto con una malattia organica. La telecamera sonda, dotata di lenti ai raggi infrarossi e di lettori ai raggi X, rivelava molte piú cose di un qualunque occhio umano. 

Io ero particolarmente abile nell’utilizzare questi complessi sistemi elettronici, essendo dotato di una sensibilità nell’uso della tastiera che era l’equivalente moderno delle tecniche dei chirurghi classici, ma dai trent’anni in poi decisi di dedicarmi alla medicina generale, con notevoli risultati. Libero dalla necessità di fare visita personalmente al mio ambulatorio, per i miei pazienti era sufficiente connettersi al mio canale. La selezione delle chiamate in entrata, che comportava mandare in dissolvenza una casalinga in menopausa e passare a un bambino affetto da dissenteria, ricordando al tempo stesso di tenere in onda separatamente i due ansiosi genitori, richiedeva una considerevole abilità, tanto piú in quanto i pazienti sapevano come usare gli stessi trucchi, e i piú nevrotici tra loro si spingevano ancora oltre, presentandosi con inquadrature sghembe, zoom aggressivi e tecniche di split-screen che si spingevano ben oltre i peggiori eccessi del cinema sperimentale. 

Il mio primo incontro con Margaret avvenne quando lei mi chiamò durante una mattinata particolarmente intensa. Guardando quella che veniva ancora chiamata nostalgicamente ‘sala d’aspetto’ – il display che proiettava brevi profili filmati dei pazienti della giornata – l’abitudine mi avrebbe indotto a rimandare al giorno successivo qualunque paziente si fosse connesso senza preavviso, ma fui immediatamente colpito in primo luogo dalla sua età – sembrava sulla trentina – e poi dall’impressionante pallore di questa giovane donna. Sotto i capelli biondi raccolti in una crocchia i suoi occhi spenti e la bocca serrata risaltavano su un viso che aveva il pallore della cenere. Mi resi conto che, a differenza di me e di quasi chiunque altro, non portava nessun trucco davanti allo schermo. Ciò spiegava tanto il chiarore nordico della pelle quanto l’impressione di vecchiaia – alla televisione, grazie al trucco, sembrava che tutte le persone, indipendentemente dall’età, avessero ventidue anni, e le crudeli distinzioni della cronologia erano state abolite. 


Deve essere stata questa assenza di trucco a radicare in me per la prima volta l’idea, che sarebbe sbocciata con conseguenze devastanti dieci anni dopo, di incontrare Margaret di persona. Affascinato dal suo aspetto inclassificabile, misi da parte gli altri pazienti e cominciai subito la visita. Mi disse che faceva la massaggiatrice e dopo un garbato preambolo venne al punto. Da qualche mese era preoccupata all’idea che una piccola pallina che aveva nel seno sinistro potesse essere cancerosa. 

Le risposi in tono rassicurante e le dissi che l’avrei visitata. A quel punto, senza il minimo preavviso, si sporse in avanti, si sbottonò la camicia ed espose il seno. 

Stupefatto, guardai quell’organo enorme, che superava i cinquanta centimetri di diametro e riempiva il mio schermo televisivo. I rapporti tra medico e paziente erano regolati da un codice visivo quasi vittoriano, come del resto qualunque altro rapporto sociale. Nessun medico vedeva mai i suoi pazienti svestiti, e la zona di qualunque disturbo intimo veniva indicata dal paziente mediante diapositive spesso schematiche. Perfino tra le coppie sposate l’esposizione anche parziale dei propri corpi era relativamente rara e gli organi sessuali restavano velati da filtri particolarmente potenti o erano oggetti di allusioni mediante disegni da cartone animato. Naturalmente, esisteva un canale pornografico clandestino, e prostituti di entrambi i sessi non mancavano di esporre la propria merce, ma perfino quelli che applicavano le tariffe piú alte non comparivano mai dal vivo, offrendo invece un filmino pre-registrato di se stessi al culmine dell’orgasmo. 

Queste ammirevoli convenzioni avevano eliminato qualunque pericolo di coinvolgimento personale, e la liberatoria mancanza di affetti concedeva a chi lo desiderasse di esplorare la piú ampia gamma di possibilità sessuali, aprendo la strada al giorno in cui una perversione sessuale completamente priva di sensi di colpa, o addirittura una vera e propria psicopatologia, sarebbe stata alla portata di tutti. 

Osservando l’enorme seno e il capezzolo, con la loro inconfondibile geometria, decisi che il miglior modo di trattare questa giovane cosí eccentricamente esplicita fosse di ignorare qualunque strappo alle convenzioni. Dopo che l’esame agli infrarossi ebbe confermato che il nodulo sospetto era in realtà una cisti benigna, la ragazza si riabbottonò la camicia e disse: «È un vero sollievo. Mi chiami pure, dottore, se dovesse aver bisogno di un corso di massaggi. Sarò lieta di ripagarla.» 

Sebbene mi sentissi fortemente attratto, stavo per chiudere questo insolito consulto medico con la consueta richiesta di accredito quando la sua strana offerta si fece spazio nella mia mente. Incuriosito all’idea di vederla di nuovo, fissai un appuntamento per la settimana successiva. 

Senza rendermene conto, avevo già cominciato il corteggiamento di questa strana giovane. La sera dell’appuntamento, mi venne il sospetto che non fosse altro che una prostituta alle prime armi. Comunque, mentre restavo disteso sul divanetto della mia sauna, manipolando il mio corpo in base alle istruzioni di Margaret, non notai alcun accenno che potesse sembrare sconveniente. Nelle serate che seguirono non colsi mai la minima allusione sessuale, benché a volte, mentre ci dedicavamo ai nostri esercizi, ci mostrassimo a vicenda una parte del nostro corpo molto piú ampia di quanto non accadesse a molte coppie sposate. Margaret, lo capii a poco a poco, era assolutamente candida, una di quelle rare persone che non hanno alcun senso di sé o consapevolezza delle emozioni impudiche che possono generare negli altri. 

Il nostro corteggiamento entrò in una fase piú formale. Cominciammo a uscire insieme – ossia, a guardare gli stessi film in televisione, a visitare gli stessi teatri e le stesse sale da concerto, ad assistere alla preparazione dei pasti negli stessi ristoranti, il tutto nel conforto delle rispettive case. In realtà, in quel periodo, non avevo la minima idea di dove vivesse Margaret, se abitasse a dieci chilometri da casa mia o a cinquecento. Con una certa timidezza ci scambiammo vecchi filmati riferiti alla nostra infanzia e ai giorni di scuola, o ai nostri luoghi preferiti per le vacanze. 

Sei mesi dopo ci sposammo, con una magnifica cerimonia nella studio-cappella piú sofisticata. C’erano piú di duecento invitati, tutti connessi sul nostro canale, e il servizio fu officiato da un sacerdote famoso per la sua padronanza della tecnica dello split screen. Alcune immagini di Margaret e mie, registrate nei rispettivi soggiorni, vennero proiettate sullo sfondo della cattedrale: sembrava quasi che camminassimo mano nella mano lungo una splendida navata. 

Per la luna di miele andammo a Venezia. Fu bellissimo condividere gli scorci panoramici delle folle in piazza San Marco, e guardare insieme i Tintoretto all’Accademia. La nostra prima notte di nozze fu un trionfo nell’arte della regia. Mentre eravamo stesi nei rispettivi letti (Margaret, in realtà, quasi cinquanta chilometri piú a sud di me, in un quartiere di grattacieli), la corteggiai con una serie di zoom sempre piú arditi, alla quale rispose, in modo dolce ma provocante, con abili dissolvenze e interruzioni. Mentre ci spogliavamo e ci esponevamo l’uno all’altra, gli schermi si fusero in un ultimo, sublime primo piano... 

Fin dall’inizio formammo una bella coppia, con tanti interessi comuni, e trascorremmo molto piú tempo insieme sullo schermo di qualunque altra coppia conoscessimo. A tempo debito, e con l’inseminazione, Karen venne concepita e nacque, e subito dopo il suo secondo compleanno venne raggiunta nel reparto neonatale dell’ospedale da David. 

Trascorsero altri sette anni di gioia domestica. Durante quel periodo mi guadagnai una grandissima reputazione come pediatra grazie al mio sostegno incondizionato per la vita famigliare – dal mio punto di vista, la famiglia restava l’unità fondamentale, e la descrivevo come il reparto di terapia intensiva della nostra vita. Mi battei ripetutamente per l’installazione di nuove telecamere nelle case dei membri di una famiglia, e provocai una vigorosa controversia quando suggerii che i componenti delle famiglie dovevano fare il bagno insieme, girare nudi nelle rispettive stanze senza il minimo imbarazzo, e perfino che i padri dovessero assistere (anche se non in primo piano) alle nascite dei rispettivi figli. 

Fu durante una piacevole colazione di famiglia che mi venne la straordinaria idea che avrebbe cambiato drammaticamente le nostre vite. Stavo guardando l’immagine di Margaret sullo schermo, ammirando la bellezza della maschera cosmetica che ora indossava e che, sempre piú spessa ed elaborata man mano che passavano gli anni, la faceva sembrare ogni volta piú giovane. Mi deliziava il modo elegante e ricco di stile col quale ci presentavamo l’uno all’altra – eravamo riusciti a passare dall’asciuttezza di Bergman e dai facili manierismi di Fellini e di Hitchcock alla serenità e all’umorismo classici di René Clair e di Max Ophuls, benché i bambini, con il loro amore per le telecamere a mano, sembrassero ancora altrettanti Godard. 

Ricordando il modo brusco in cui Margaret mi si era rivelata quella prima volta, mi resi conto che l’estensione logica della sua mancanza di inibizione – sulla quale, in effetti, avevo costruito la mia carriera – comportava che ci incontrassimo tutti di persona. In tutta la mia vita, riflettei, non avevo mai visto e tanto meno toccato un altro essere umano. Da chi allora cominciare, se non da mia moglie e dai miei figli? 

Provai ad avanzare la proposta a Margaret e fui deliziato quando acconsentí. 

«Che idea strana e meravigliosa! Chissà come mai nessuno l’ha ancora suggerita?» 

Decidemmo all’istante che quell’interdizione arcaica a incontrare un altro essere umano meritava solo di essere ignorata. 

Sfortunatamente, per motivi che sul momento mi sfuggirono, il nostro primo incontro non fu un successo. Per evitare di confondere i bambini, lo limitammo deliberatamente a noi due soli. Ricordo ancora i giorni di attesa, durante i quali eravamo impegnati nei preparativi per il viaggio di Margaret – un’impresa non semplice, poiché la gente viaggiava raramente con mezzi che non fossero il rapido segnale televisivo. 

Un’ora prima del suo arrivo spensi i complicati meccanismi di sicurezza che proteggevano la mia casa dal mondo esterno, i sistemi di allarme elettronici, le griglie d’acciaio e le porte stagne a prova di gas. 

Finalmente, suonò il campanello. Immobile sotto la saracinesca della porta d’ingresso, sbloccai le serrature magnetiche che la tenevano chiusa. Pochi secondi piú tardi la figura di una donna piccola e stretta di spalle si affacciò sulla soglia. Benché fosse ancora a piú di sei metri di distanza riuscivo a vederla chiaramente, ma quasi non mi accorsi che quella era la donna con cui ero sposato da piú di dieci anni. 

Nessuno di noi due portava il trucco. Senza la sua maschera cosmetica il volto di Margaret sembrava gonfio e malaticcio, e i movimenti delle sue mani bianche erano nervosi e incerti. Fui sorpreso dalla sua età avanzata, e soprattutto dalla sua corporatura minuta. Per anni avevo conosciuto Margaret attraverso primi piani ravvicinati su uno dei grandi schermi della casa. Perfino in campo lungo, sembrava molto piú grande di questa donna curva e smagrita che stava in piedi tremante sul lato opposto della sala. Era difficile credere che potessi mai essere stato eccitato dai suoi seni flosci e dai fianchi ossuti. 

Imbarazzati l’uno dall’altra, restammo sui lati opposti della sala, senza parlare. Capii dalla sua espressione che Margaret era sorpresa dal mio aspetto almeno quanto lo ero io dal suo. In aggiunta, c’era qualcosa di inquisitorio nel suo sguardo, un elemento vagamente ostile che non avevo mai visto prima. 


Senza riflettere, avvicinai la mano alla saracinesca. Margaret era già indietreggiata fino alla porta, forse preoccupata dall’idea che io potessi imprigionarla in quella sala per l’eternità. Prima che potessi parlarle, si era già voltata ed era fuggita. 

Quando se ne fu andata controllai scrupolosamente la serratura della porta d’ingresso. Nell’ambiente gravava ancora un odore debole e tutt’altro che piacevole. 

Dopo quel primo e fallimentare contatto Margaret e io tornammo alla pace serena della nostra vita coniugale. Fui cosí sollevato di rivederla sullo schermo che stentavo a credere che il nostro incontro fosse mai avvenuto. Nessuno di noi due si riferí mai al disastro, e alle emozioni sgradevoli che il nostro breve incontro aveva scatenato. 

Durante i giorni che seguirono, riflettei dolorosamente su quell’esperienza. Ben lungi dall’avvicinarci, quell’incontro ci aveva allontanati. La vera vicinanza, ora lo sapevo, era quella televisiva – l’intimità di uno zoom, del microfono, del primo piano. Sullo schermo non c’erano strani odori né respiri faticosi, contrazioni della pupilla e riflessi facciali; non c’era il gioco reciproco delle emozioni, della sfiducia, dell’insicurezza. L’affetto e la compassione richiedevano distanza. Solo da lontano era possibile provare quel senso di vicinanza con un altro essere umano che, con un po’ di buona sorte, poteva trasformarsi in amore. 

Ciò nonostante, finimmo inevitabilmente per organizzare un secondo incontro. Perché lo facessimo resta ancora un mistero, ma sembrava proprio che a motivarci fossero quegli stessi sentimenti di curiosità e sfiducia che avremmo invece dovuto temere. Discutendo con calma quell’esperienza insieme a Margaret, venni a sapere che aveva provato per me lo stesso disgusto e la stessa oscura ostilità che io avevo sentito per lei. Decidemmo che in occasione del nostro nuovo incontro avremmo portato anche i bambini e che saremmo stati tutti truccati, modellando il meglio possibile il nostro comportamento sulla nostra vita sullo schermo. Di conseguenza, tre mesi dopo, Margaret e io, David e Karen, l’intero reparto di terapia intensiva, si riuní per la prima volta nel mio soggiorno. 

*  *  * 

Karen si agita. È rotolata sul fusto della lampada e ora il suo corpo è di fronte a me, sul lato opposto del tappeto macchiato di sangue, nudo come quando mi si era spogliata davanti. È stato quell’atto provocatorio, probabilmente inteso a risvegliare qualche fantasia incestuosa sepolta nella mente di suo padre, a provocare l’esplosione di violenza che ci ha lasciati sanguinanti ed esausti nelle rovine del mio soggiorno. Nonostante le ferite sul suo corpo, le contusioni che sfigurano i suoi piccoli seni, mi ricorda la Olympia di Manet, forse dipinta poche ore dopo la visita di un cliente psicotico. Anche Margaret sta guardando sua figlia. Si sporge in avanti dalla poltrona, rivolgendo a Karen uno sguardo al tempo stesso possessivo e minaccioso. A parte un piccolo colpo ai miei testicoli, mi ha letteralmente ignorato. Per qualche motivo, le due donne si sono scelte a vicenda come bersaglio, proprio come David ha rivolto quasi tutta la sua ostilità verso di me. Quando l’ho colpito per la prima volta, non immaginavo che avesse le forbici in mano. Ora è a pochi passi da me, pronto a lanciare il suo ultimo assalto. Non so perché, ma si è arrabbiato moltissimo nel vedere gli animali di pezza che avevo preparato con tanta cura per lui e le parti smembrate di quegli orsacchiotti sono sparse dappertutto sul pavimento. 

Fortunatamente ora riesco a respirare appena meglio. Muovo la testa per controllare la telecamera sul soffitto e i miei avversari: insieme, offriamo uno spettacolo grottesco. Il pesante trucco televisivo che avevamo deciso di indossare si è dissolto in una serie di bizzarre maschere di Halloween. 

Comunque, siamo finalmente riuniti. Il mio affetto nei loro confronti supera di gran lunga questi piccoli problemi di comprensione reciproca. Non appena sono arrivati, la ferita alla testa di David e il sangue che usciva dall’orecchio di mia moglie lasciavano già intuire che la lotta sarebbe stata letale. Ho capito subito di dover affrontare una dura prova, ma almeno eravamo a un punto di partenza, e nel nostro piccolo stavamo affermando la possibilità di un nuovo genere di vita famigliare. 

Ora respiriamo tutti piú forte, ed è chiaro che tra un minuto comincerà l’attacco decisivo. Vedo le forbici insanguinate nella mano di mio figlio, e ricordo il dolore quando mi ha trafitto. Mi appoggio al divano, pronto a colpirlo in faccia. Con il braccio destro sono probabilmente abbastanza forte per tenere a bada chi sopravvivrà allo scontro tra mia moglie e mia figlia. Sorrido loro con affetto, mentre la rabbia mi secca il sangue in gola. L’unica cosa di cui sono consapevole è il mio incontenibile amore. 

Titolo originale: «The Intensive Care Unit»
(Ambit, 1977) 

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