I riti penitenziali dei “photographer” di Guardia Sanframondi



Ora pro photographer. Una preghiera profana per i fotografi pentiti

testo Luigi Furno
photographer Ursula Iannone
photoshopper Luigi Furno

Un giorno, molto tempo fa, mi capitò sottomano una fotografia di un battente di Guardia Sanframondi. In quel momento, con uno stupore che da allora non ho mai potuto ridurre, mi dissi: «Sto vedendo gli occhi che hanno visto un battente pungersi il petto a sangue per amore della Vergine Maria».

Sì, sto parafrasando l’incipit di “La camera chiara” di Roland Barthes. Da tempo sono più interessato agli occhi che hanno visto, che a quello che vedono. È un passaggio dall’oggettivo all’immateriale. In un certo qual modo mi sembra di essere più vicino all’umano, a sondarne dentro le necessità. È una questione “ontologica”, diceva lo stesso Barthes, sono interessato alle questioni antropologiche e psico-fisiologiche della Fotografia. Non mi interessa la sua natura tecnica, che è invece l’ossessione dei fotoamatori, sono interessato, invece, al desiderio masturbatorio per la fissità delle immagini che molti manifestano in maniera quasi patologica. E chiaramente, dove c’è patologia - fotofilia o fotofobia che sia - c’è sempre posto per .furiaLAB.

Gli uomini isolano entro la loro attività visiva, quella che per loro rappresenta una legge esistenziale, ogni unità simbolica che chiamiamo immagine. Un’immagine è più di un prodotto della percezione. Nasce come il risultato di una simbolizzazione personale o collettiva. Ogni simbolizzazione, avendo natura culturale, è soggetta a tic e manie che nel tempo si somatizzano. Il corpo, allora, diventa il vero segno con cui trasmettere senso. Il corpo incontra sempre le medesime esperienze – il tempo, lo spazio, la morte – che raccogliamo a priori nelle immagini. Per l’antropologia, l’uomo appare non più come signore delle proprie immagini, bensì, in maniera del tutto diversa, come luogo delle immagini che ne occupano il corpo. Non si può ridurre un’immagine alla forma che assume un mezzo quando lo trasmette.

Così, per puro capriccio, abbiamo provato ad invertire tale meccanismo mediale attraverso un meccanismo di ricollocazione del discorso fotografico. Abbiamo scelto di vivisezionare la “macchina” che “pensa” le immagini fotografiche, cioè l’uomo, attraverso le immagini fotografiche. Per tale ragione, abbiamo deciso di fare un reportage sui fotografi penitenti ai Riti settennali di Guardia Sanframondi. "Se guardi fortissimo il rito dall'obiettivo, alla fine è il rito che guarda te. E ti assimila" (Domenico Maffei).

Non avendo capacità professionali di produrre fotografie dalle qualità estetiche degne di nota, abbiamo scelto di fotografare una mania in azione nella sua fase più vitale ed acuta. Le nostre foto sono fotografie di fotografi – non sappiamo se professionisti o semplici amatori - alle prese con la loro rappresentazione rituale intorno al totem dell’immagine. Portano sui loro corpi, come i battenti, i segni simbolici del sacrificio e dei peccati che devono espiare per inscenare il ruolo sociale che hanno scelto di impersonare. 

La fotografia è il più grande feticcio della nostra epoca. Un feticcio estetico, tecnologico, simbolico, esistenziale. 

Abbiamo scelto di fotografare questo feticcio con uno stile che sia il feticcio stesso. Per essere il più aderenti possibile al feticcio della foto d’autore, abbiamo messo nelle nostre foto tutti i feticci che fanno di una fotografia una fotografia d’autore. Abbiamo scelto il bianco e nero, con contrasti estremizzati, una ricerca estetica per il vintage che dà un certo antico sapore analogico di pellicola. Abbiamo scelto di mascherare attraverso una silhouette nera i partecipanti ai veri Riti di penitenza perché, nelle foto di reportage, ci vuole “rispetto”. Abbiamo cercato di trasmettere alle fotografie una giusta aura di approfondimento antropologico sulla vita attraverso un’ossessiva insistenza su soggetti ignari di essere fotografati.

Buona visione 

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