In nome di Boby




Rileggere Cortàzar. 

Non rileggere per acquietarsi nelle acque chete del senso o per reinterpretare e sofisticare, ma rileggere nel senso più profondo del termine, ovvero: leggere ancora. Farlo secondo una procedura di intersezione ipertestuale del linguaggio sonoro e vocale in grado di proporre una sinossi ricreativa ed esausta dell’articolata testualità di Cortàzar. Rileggere per restituire, con codici espressivi diversi, l’emblematica veridicità dei luoghi in cui Cortàzar inquadra e impacchetta i suoi personaggi.

“In nome di Boby”, un racconto dello scrittore argentino Julio Cortàzar contenuto nella raccolta “Uno che passa di qui” (Ed. Guanda), è un mistero fatto di materie stranamente aggregate, di date e velocità molto differenti, di fili che tengono in piedi un bambino in forma di una marionetta. Si evoca il dramma umano di una maternità mai partorita, il destino di un travaglio vissuto a colpi di coltello, la tragedia di un odio silenzioso, la devastazione di un amore malato, la ferocia di un’idea di possessione.

Il grande scrittore argentino ci racconta una storia con uno stile che si potrebbe definire 'sostantivale', fatto tanto di ellissi quanto di cancellazione del verbo, e che dà luogo ad una narrazione densa di velocità, fulmineità, forse la caratteristica essenziale, almeno sul piano dello stile, di quella letteratura fantastica di cui è uno dei Maestri. 

Dopo Borges, Julio Cortàzar ha avuto, nella particolare scrittura del fantastico, un ruolo preminente. La prima caratteristica del suo modo di narrare è la precisione realistica in cui la trasfigurazione visionaria affonda le radici: i vari quartieri di Buenos Aires, gli ambienti altoborghesi o piccoloborghesi o popolari, le atmosfere familiari... Il misterioso, l'irrazionale, il tragico, germogliano dalla più corporea descrizione del quotidiano. 

“In nome di Boby” è uno spettacolo in una forma multimediale, una commistione tra performance attoriale, musica e video/installazione. Nello spazio ritagliato nel tempo di otto anni, la sorella della madre di Boby svolge la sua cerimonia morbosa e infame, eppure disincantata, vera, tragicamente sincera, in cui l’amore ossessionato per il figlio che avrebbe voluto, assolve da ogni peccato.

L’attrice in scena agisce e racconta, in assenza di linearità, e nel pieno della multidirezionalità dei possibili ordini del tempo, attraverso linee di articolazione e di segmentarietà, strati, territorialità, ma anche linee di fuga, movimenti di deterritorializzazione e di destratificazione. La messa in scena ha la durata di circa un’ora.

Boby, il protagonista del racconto, come residuo involutivo che ci portiamo dentro, non arriva al punto in cui non si dice più: “Io”, ma al punto in cui non ha più alcuna importanza dire o non dire: “Io”. Non siamo più noi stessi. Ognuno riconoscerà i suoi io. Siamo stati aiutati, aspirati e moltiplicati. 

Non esiste una voce e un ascoltatore ideale poiché la lingua vive nella bocca e nelle orecchie di tutti, e perciò eterogenea, sostanzialmente anarchica, ingovernabile.
Questo il senso ultimo del nostro “In nome di Boby”.


CREDIT

adattamento, musiche, video e regia: Luigi Furno
con: Ursula Iannone
produzione: .furiaLAB





















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