Festival, Gramsci, apologia della complessità


di Luigi Furno

Amare ciò che rotola su se stesso come un tornado è la visione più sorprendente della caduta verso l’abisso.

Guardarmi in faccia, allo specchio, è ritrovare ancora dei baffi lunghi e folti che mi nascondono la bocca, è il sipario. Ma in mezzo – tra le sopracciglia e i baffi – compare una nudità che al principio giudico impudica, questo è il palcoscenico, come se il solo fatto di essere levigate rende quelle arie nude come natiche al vento. Una faccia come il culo che urla contro la semplicità, l’intrattenimento, il per tutti. 

L'ultima volta che ho visto una cosa, con una sana pretenziosità di qualità, definita "per tutti" era il "Così parlò Zarathustra" che il suo autore, Friedrich Nietzsche, apostrofò come un libro per tutti ma aggiunse pure "per tutti e per nessuno". Un abisso rispetto al qualunquismo del solo "per tutti".

Semplificare, è noto, vuol dire rendere semplice. Semplice è qualcosa, etimologicamente, diverso da duplice, triplice ecc. Semplice vuol dire piegato una sola volta. È come un letto pisciato di notte e ricoperto di lenzuola di seta stirate al mattino. 

Così Benevento Città Spettacolo, un festival teatrale che ho amato molto, è diventato un letto pisciato di notte ricoperto di tovaglie di puro lino su cui apparecchiare le vettovaglie della “Cena in Bianco”.

I festival però possono essere di due tipi: di ragionamento e di riflessione. Per loro natura è da notare che i primi tendono a semplificare un problema sorvolandolo con la spettacolarizzazione. D'altra parte, ragionamento deriva da ragione, che ha il suo alterego nella parola razione, per cui ragionare vuol dire dividere in parti più semplici problemi di natura complessa. Dividere in parti più semplici per dare a tutti qualcosa.

I Festival di riflessione invece agiscono in maniera nettamente contraria al ragionamento: riflettere vuol dire flettere su se stessi, piegarsi su di sé, così come complicare vuol dire piegare insieme, piegare più volte. Una riflessione è, quindi, una problematizzazione di dati che apparentemente sembrano semplici, ma che, dal momento che riguardano l'uomo che non è un automa, sono invece complessi. 

La divaricazione tra queste forme ha dato vita a due linee di frattura, di fronte a politiche culturali sempre più votate all'intrattenimento e al cosiddetto “mercato”. Nelle parole del critico teatrale Oliviero Ponte di Pino: «Sul versante del pubblico, un bel concerto pop, o l’apparizione di un comico televisivo, sembrano molto più efficaci e riscuotono un successo immediatamente misurabile. Sul versante del tessuto culturale, si crea una distanza tra due tipi di esperienza: quella poco più che amatoriale a livello locale, e quella aperta alla sperimentazione internazionale, spesso poco attenta al rapporto con il pubblico, soprattutto negli scorsi decenni. Ora invece l’enfasi su arte partecipata e audience development sembrerebbe indizio di una diversa consapevolezza: ma questi sono termini che al politico e al giornalista medio in Italia dicono ancora poco o niente.

A molti amministratori sembra dunque più efficace una politica basata sul consenso. Da un lato si tratta di portare in piazza l’audience massificata dalla televisione, scegliendo sulla base dell’indice di notorietà di Google, al di là dell’effettivo impatto culturale. Oltretutto, nella visione di molti amministratori, i festival devono servire a valorizzare un territorio, con una funzione di promozione para-turistica (o di passatempo serale per il turista). Dall’altro lato, basta gestire con qualche briciola di denaro pubblico le clientele di piccolo cabotaggio sul “territorio”: il provincialismo di molta cultura italiana si spiega anche così.

Un altro elemento di incertezza deriva dalla labilità del quadro politico: a ogni elezione, gli operatori culturali devono ricostruire il rapporto con gli enti locali. Chi vince un’elezione amministrativa ha due preoccupazioni: dare spazio ai propri sostenitori, usando il sistema dello spoils system; e dare l’impressione di un forte cambiamento, facendo piazza pulita di quello che nel bene e nel male aveva fatto la giunta precedente. Dunque meglio un’arte inoffensiva, evasiva, divertente. Un’arte che non rompa gli equilibri, che non faccia pensare troppo. Bene i clown, male i carcerati. Che resti precaria e dunque ricattabile. Male la compagnia stabile, meglio gli spettacolini, magari “carini”. In fondo i festival sono feste, perché rovinarsi la vita con i cattivi pensieri, i rischi inutili, le visioni depressive? La gran parte di questa rassegne si svolge d’estate: ma dai, dobbiamo davvero rovinarci le vacanze? Abbiamo tutto l’inverno per pensare alle brutte cose del mondo…»

Riflettevo stamattina sulla deriva della sfacciataggine delle risposte che ti danno quando chiedi una qualità equiparabile al livello di scolarizzazione media del paese e mi sono tornate in mente la risposta alle critiche di cui fu oggetto il giovane Antonio Gramsci negli anni in cui redigeva la rivista l’Ordine Nuovo. 

[...] Sì, è vero, abbiamo pubblicato articoli "lunghi" studi "difficili" e continueremo a farlo, ogni qualvolta ciò sarà richiesto dall'importanza e dalla gravità degli argomenti, ciò è nella linea del nostro programma: non vogliamo nascondere nessuna difficoltà, crediamo bene che la classe lavoratrice acquisti fin d'ora coscienza dell'estensione e della serietà dei compiti che le incomberanno domani, crediamo onesto trattare i lavoratori come uomini cui si parla apertamente, crudamente, delle cose che li riguardano. Purtroppo gli operai e i contadini sono stati considerati a lungo come dei bambini che hanno bisogno di essere guidati dappertutto: in fabbrica e sul campo dal pugno di ferro del padrone che li stringe alla nuca, nella vita politica dalla parola roboante e melliflua dei demagoghi incantatori. Nel campo della cultura poi, operai e contadini sono stati e sono ancora considerati dai più come una massa di negri che si può facilmente accontentare con della paccottiglia, con delle perle false e con dei fondi di bicchiere, riserbando agli eletti i diamanti e le altre merci di valore. Non v'è nulla di più inumano e antisocialista di questa concezione. Se vi è nel mondo qualcosa che ha un valore per sé, tutti sono degni e capaci di goderne. Non vi sono né due verità, né due diversi modi di discutere. Non vi è nessun motivo per cui un lavoratore debba essere incapace di giungere a gustare un canto di Leopardi più di una chitarrata, supponiamo, di Felice Cavallotti o di un altro poeta "popolare", una sinfonia di Beethoven più di una canzone di Piedigrotta. E non vi è nessun motivo per cui, rivolgendosi a operai e contadini, trattando i problemi che li riguardano così da vicino come quelli dell'organizzazione della loro comunità, si debba usare un tono minore, diverso da quello che a siffatti problemi si conviene. Volete che chi è stato fino a ieri uno schiavo diventi un uomo? Incominciate a trattarlo, sempre, come un uomo e il più grande passo in avanti sarà già fatto. 

Antonio Gramsci, da L'ORDINE NUOVO, 10 gennaio 1920, I, n. 33.

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