Il Teatro, Roberto Latini e la sospensione del tragico


Un rarefatto “I giganti della montagna” in scena all’Efestoval

di Luigi Furno



Può esistere il teatro senza spettatori?
Ce ne vuole almeno uno per parlare di spettacolo.
E così non ci rimane che l’attore e lo spettatore.
Possiamo perciò definire il teatro come
“ciò che avviene tra lo spettatore e l’attore”.
Tutto il resto è supplementare
– forse necessario, ma supplementare.

Jerzy Grotowski


Sospendendo il discorso sulla marginalità dell’esperienza teatrale nella contemporaneità, il Teatro di oggi si trova a dovere riflettere sulla corrosività che i movimenti d’avanguardia hanno applicato e duplicato sulla sua carne. Il Teatro è stato smembrato nei suoi diversi fattori: il testo e la scenografia, i costumi e la recitazione, la coreografia e le luci, perfino lo spazio e il pubblico si pongono ora come un repertorio di elementi che possono essere combinati tra loro nei modi più differenti in vista di un risultato complessivo, o anche senza nessuno scopo predeterminato. È questo il senso se vogliamo più esteriore di del concetto di sperimentazione teatrale vicino, in un certo modo, a quello dell’esperimento chimico: si prova a mettere insieme un certo gesto con un certo suono e si osserva la reazione. La messa in scena non è più una struttura in buona misura rigida e nota: l’autore non può più sapere a priori come il suo testo sarà rappresentato, né attore come dovrà recitarlo.

Questa strada sdrucciolevole non può esimersi di percorrerla anche Roberto Latini - attore, autore, regista e PREMIO UBU 2014 come Miglior Attore – se vuole vivere immerso nell’oggi.

Sabato sera, il pubblico di Efestoval, “Festival dei vulcani” di teatro itinerante nei Campi Flegrei diretto dal drammaturgo e attore Mimmo Borrelli, ha avuto modo di assistere nel Parco Monumentale di Baia - un posto incantevole che per il resto dell’anno è difficilmente visitabile, con sullo sfondo il castello aragonese di Baia e una iridescente mare illuminato da una luna piena - al lavoro di adattamento di Roberto Latini da “I giganti della montagna”, incompiuta e ultima opera teatrale di Luigi Pirandello: indubitabilmente una delle più controverse e simboliche del drammaturgo siciliano. Bellissimo e incompiuto. Scrive Latini: “L'incompiutezza è per la letteratura, per il teatro è qualcosa di ontologico. Trovo perfetto per Pirandello e per il Novecento che il lascito ultimo di un autore così fondamentale per il contemporaneo sia senza conclusione. Senza definizione. Senza punto e senza il sipario di quando c'è scritto - cala la tela”.



L’aspetto molto interessante del modo di fare teatro di Latini, che è l’aspetto che lo aggancia ad una modalità di fare teatro contemporaneo, è la totale assenza nel suo lavoro di sottotesti psicologici. Quello che ricerca affannosamente è una profonda dimensione dell’individuo, un’orma nitida dell’essere, una descrizione pantografica della condizione umana, non le piccole e miserevoli latenze psicologiche. Non c’è dunque da stupirsi se i personaggi che interpreta in scena sono sempre extra-quotidiani: fantasmi, imperatori folli, sanguinari assassini esattamente come accade ne “I giganti della montagna”. È molto forte, infatti, per l’attore la necessità di inserire nell’adattamento stridenti fratture “patafisiche”, proprio perché la scrittura scenica non si perda in oscuri cunicoli psicologici o suggestioni romantiche.

Latini prende a pretesto (prendere ciò che lo anticipa: pre/testo) la drammaturgia di Pirandello e la passa in un tritacarne semiologicamente affilato per scontornarne il testo in frammenti minimi e disarticolati. Dichiara il regista: “Voglio rimanere il più possibile nell’indefinito, accogliere il movimento interno al testo e portarlo sul ciglio di un finale sospeso tra il senso e l’impossibilità della sua rappresentazione”.

Il meccanismo schizofrenico di disarticolazione del testo che fa Latini e similare all’apporto teorico di Artaud dove – come spiega Deleuze nella “Logica del senso” – la parola diventa azione, “azione di un corpo senza parti”. Si tramuta in grido, soffio, rumore e in essi la voce può farsi opaca, significare pur senza possedere un senso. Le diverse operazioni compiute dall’Entstellung comportano necessariamente lo spessore del figurale. Nel teatro può avvenire infatti uno spostamento, per cui servirà uno spazio diverso da quello linguistico che è piano: lo spostamento richiede una sovrapposizione e quindi una «dimensione visiva», è necessaria la profondità per la rimozione. Può esservi una condensazione, che trasgredisce lo spazio del discorso implicando un “cambiamento di stato» per cui «parole-cose, parole comiche e strane” acquisiscono spessore per via della loro “cosalità”, perdendo trasparenza. La parola acquista così spazialità, diventa anch’essa commistione, ed è esattamente questo l’utilizzo che vuole farne l’avanguardia teatrale: “Modificare la funzione della parola a teatro, significa servirsi della parola in senso concreto e spaziale, sino a confonderla con tutto ciò che di spaziale e di significativo sul terreno concreto il teatro contiene; significa manipolarla come un oggetto solido e che smuove le cose, prima nell’aria, e poi in un terreno infinitamente più misterioso e segreto, ma tale da consentire una estensione, e questo terreno segreto ma esteso non sarà poi difficile identificarlo da un lato con quello dell’anarchia formale, dall’altro con quello della creazione formale continua”. D’altra parte, se pensiamo all’Ubu Roi, spettacolo su cui sta lavorando lo stesso Roberto Latini, come atto simbolico di fondazione delle avanguardie teatrali, la sua rivoluzione è cominciata esattamente nel momento in cui Gémier, primo interprete di Ubu, ha pronunciato in scena la prima parola del dramma, il famigerato Merdre! L’aggiunta di quella r riporta foneticamente al brontolio del vorticoso e profondo ventre di Ubu, ne imita la digestione e l’insaziabilità animale, il divenire escremento del nutrimento e viceversa: l’aggiunta di quella r fa acquisire spessore alla parola, cosalità, permette l’intrusione del figurale nell’ordine linguistico rendendola un antisegno.


Il lavoro (una versione cambiata rispetto a quella iniziale che prevedeva anche l’attrice Federica Fracassi) che Latini fa de “I giganti della montagna” sta nel trattarlo come una particella molecolare scurissima da disarticolare, solitaria, percepibile appena e su cui innestare un corpo larvale, quello dell’attore, che non conosce mai una vera posizione eretta in preda com’è ad ipnotica tensione al raggomitolamento che ne definisce la sua dimensione corporea. “Voglio immaginare” dice Latini “tutta l'immaginazione che posso per muovere dalle parole di Pirandello verso un limite che non conosco. Portarle “al di fuori di tempo e spazio”, come indicato nella prima didascalia, toglierle ai personaggi e alle loro sfumature, ai caratteri, ai meccanismi dialogici, sperando possano portarmi ad altro, altro che non so, altro, oltre tutto quello che può sembrare”.

L’attore/regista, vestito di nero con un drappo color curcuma che verrà spesso usato come maschera-sudario, entra silenzio su un tappeto sonoro di urla di gabbiani. Il palcoscenico è un perfetto luogo ageografico, cioè vuoto, al centro solo una sedia con tre microfoni. Le luci sul palco si spengono, esattamente il contrario di quello che succede su un ring a significare che qui siamo dopo la battaglia, ed il nero è fitto. In quest’atmosfera rarefatta la prima frase detta da Roberto Latini è “Io… io… io… io… ho… paura”. Si comincia dalla fine ovvero si comincia dall’ultimo scampolo de “I giganti della Montagna” di Pirandello, dichiarando marcatamente che il sentimento di terrore, tremendo e benefico, è la linfa vitale dell’opera.

L’opera pirandelliana, si narra, fu composta come mito teatrale ed è (anche) dovuta alla sventurata sera del primo dicembre del 1927, quando la compagnia di Pirandello è costretta a recitare “I sei personaggi” al cospetto d’un pubblico di braccianti, che nulla coglie della messinscena, che niente comprende delle parole. “Fummo costretti a uscire di nuovo sul palco e a dire “guardate che è finito”, perché tutti rimasero pietrificati e non si muovevano” racconta Rina Franchetti.


La trama dell’opera è semplice. Una compagnia di giro – come tante, all’epoca, cui il blocco fascista impediva di spostarsi – approda in una villa dove un mago e altri visionari si sono ritirati a vita privata e isolata. Alla compagnia viene proposto di rappresentare lo spettacolo alla presenza dei giganti, esseri enormi e intrisi di potere che, tutti “apparecchiati a festa”, scenderanno dall’alto della loro montagna. Troppo spesso, lasciando trasportare da una interpretazione ingenua della trametta, s’è messo in palco I giganti come una riflessione sul rapporto tra il Teatro ed il pubblico, tra il Teatro e la società che ripudia l’Arte dei guitti. Per Luigi Pirandello fu invece l’occasione di una vera e propria pacificazione col Teatro in quanto Teatro, inteso non più come “vignetta animata” che svilisce il lavoro degli autori attraverso la propria natura posticcia, ma come vera e propria esperienza chimerica, riservata a un pubblico di iniziati che ha il privilegio – avendo scelto di sedere in platea – di assistere al mostrarsi delle ombre, delle figure, dei personaggi. L’evento infelice che Pirandello vive, recitando ai contadini, sparisce mentre prende posto una riflessione sull’Arte di scena intesa, dunque, come insieme di prodigio e d’astuzia, d’inganno e di tecnica, di fantasia e di mestiere. Così, quando Cotrone dice: “Siamo qua come agli orli della vita”, la parola fondamentale della frase è “orli” giacché segnala che il teatro appare al confine, sul margine, lì dove la vita non è quasi più vita mentre già si presta a diventare diceria ricreativa, incerta sostanza metaforica. E quando – sempre Cotrone – continua dicendo che “gli orli si distaccano”, che “entra l’invisibile”, che “vaporano i fantasmi” descrive esattamente la concezione teatrale dell’ultimo Pirandello e – di rimando – anche la concezione del lavoro di Roberto Latini, che fa de I giganti un teatrale sortilegio dell’invisibile: come chiamandoli, ad uno ad uno, dal fondo del palco, lascia che si presentino in ribalta le figure fantastiche generate dall’autore, mostrandole nella loro dimensione ombratile, pestilenziale e incantevole: reali e irreali, false e veritiere, eteree e carnali, sono sembianze vedibili ma soltanto per la breve porzione di tempo che loro spetta.


Nella scrittura scenica di Latini assistiamo allo spettacolo di un attore ma, questo attore, è una corpo rifrangente, un’apparizione chiaroscurale che dialoga con la musica e i suoni di Gianluca Misiti. Scoloriscono le gambe; le braccia, il petto e le spalle si mostrano solo parzialmente mentre – del volto – intuiamo talvolta un occhio e una guancia, talaltra una parte della fronte, un orecchio. Un gioco di apparizione fantasmatica del corpo. La voce, assistita da più microfoni, suona differente e distorta: pluritonalità teatralizzata, gravose accentuazioni di spavento, vocalità roche o stridule, risatine tremende. Chi ricorda l’ultimo misterioso testo di Pirandello sa quanto il suono, nell’immaginazione dell’autore, fosse importante, con quell’inizio, in didascalia: “Dall’interno della villa si ode, accompagnato da strani strumenti, un canto balzante, che ora scoppia in strilli imprevisti e or s’abbandona in scivoli rischiosi, finché non si lascia attrarre quasi in un vortice, da cui tutt’a un tratto si strappa mettendosi a fuggire come un cavallo ombrato”.

Non è nuovo Latini a questi smembramenti sul testo, lo aveva già fatto con il monologo di Amleto e con il “Caligola” di Camus. “Le parole, le parole, le parole! Sono queste il personaggio che ho scelto. Se i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo, per andare appena oltre, per provarci almeno, devo muovere proprio da quelli”. Innanzitutto Latini affronta da solo il palcoscenico, voce e corpo, e per farlo ingaggia un rapporto decisamente conflittuale col l’aspetto testuale, lo spezza, lo rimonta, lo attraversa, lo distorce dilatandone le temporalità con l’intento di individuarne le cuciture, metterne alla prova la tenuta delle fibre, far deflagrare il senso delle parole in maniera imprevista e ancora più fragorosa. La scrittura scenica è un tentativo che prova a disvelare l’originale, si snuda in questa violazione, in questa forzata reiterazione, in questa disperazione ribattuta e riportata con tono fermo e nitido. Qui, nell’allievo di Perla Peragallo, che non ha mai recitato con Berardinis ma che sembra sempre più incarnare l’essenza della sua arte evocatrice della presenza assoluta, senza manierismi di scuola, c’è forse qualcosa in più. C’è una rassegnazione a lasciarsi possedere da personaggi ridotti a fantasmi di esseri viventi, che neppure fuggendo dal mondo trovano pace.

Questo piccolo terremoto testuale, tra oralità e modalità scenica, inevitabilmente attira verso la tentazione di cercare ascendenze e paternità, legami con le correnti teatrali da lui attraversate. Nel vedere l’operare in scena di Latini è difficile che non risuoni nella mente le modalità di Carmelo Bene. Sarebbe pure sbagliato che ciò non accadesse proprio perché è stato proprio Bene a suggerirci il teatro come storia della phonè, un teatro che mentre si anima attraversa come un ago ipodermico la fisicità e la vocalità dell’attore ma nello stesso tempo, diventando astratta e quintessenziale, si smaterializza in una sorta di dimensione ulteriore del suono, componendo un percorso in cui il rimasuglio acustico senza mai abbandonare la portata semantica delle parole, anzi non perdendola di vista, assume una corposità affine al canto. È il “recitar-cantando” di beniana memoria. Così come non è possibile non pensare a Carmelo Bene nel vedere il rapporto conflittuale che Latini inscena col testo, la sfacciataggine arbitraria di strappare la pagina dal copione, la sfrontataggine di stravolgere la struttura causale del testo, l’assoluta non curanza per la linearità della rappresentazione correndo anche il rischio della totale non interpretabilità.


Nel “I giganti della Montagna” di Latini, prodotto da Fortebraccio Teatro, si costruisce uno spazio drammatico nel quale tutto è già successo, la tragedia si è già compiuta, e in questa atemporalità addensata dal momento tragico si gira vorticosamente rincorrendo quel “dopo”, straniato e straziato, in cui è impossibile trovare una soluzione ed è totalmente preclusa la possibilità di una assoluzione, semplicemente ripercorrendo come in un museo delle cere gli attimi oramai addensati e fissi in una staticità vitrea. Il riferimento, sottotraccia, è ancora a Carmelo Bene e alla sua idea di “sospensione del tragico”. Non a caso l’attore cerca nello spettacolo una staticità/dinamica e, nella vitalità di questo ossimoro, generare una situazione che lui stesso definisce come uno “stare”, un “abitare” che non concede niente alla smania dell’evoluzione drammaturgica o temporale, costruendo un gioco scenico che resta esposto come una salma visibile nel quadrilatero del palcoscenico. In questo edifico di scrittura scenica non c’è spazio per una sciocca e superficiale mimesi con vita ed infatti non c’è traccia di una dinamica che assomigli all’evoluzione della vita vera.

Le differenze e le diversità di Latini da Bene, però, sono altrettante nitide dalle sue assonanze. Non c’è scimmiottamento delle dinamiche dall’attore salentino che, essendo un vicolo cieco - infatti bene non è definibile nell’etimo un “maestro” –, non produce allievi ma solo patetici seguaci infervorati. Nei “I giganti della Montagna” esiste ancora lo spettacolo, c’è ancora un desiderio viscerale di comunicare, si sente vitale ancora la voglia di mantenere il teatro nei binari solidi di un incontro collettivo. Latini lo fa, ereticamente, sulle orme di Leo de Berardinis e di Perla Peragallo, accreditandosi come vero erede della grande coppia di scena, perché ne recupera lo spirito, l’ascesi che cerca l’uomo attraverso il teatro, andando per maestria a rompere l’involucro della finzione e potenziando quel peculiare approccio che i due avevano per il testo. Latini porta in scena la sacralità, di cui Berardinis era il maestro, “di una visione di uno spazio che deve risuonare di intenzioni umane, che deve fare da catalizzatore magnetico di espressioni che ci portino dentro noi stessi, in profondità, senza retorica, in un buio senza fine nel quale continuano a risuonare, insistenti, alcune parole”.

C’è un esigenza precisa e chiara da parte di Roberto Latini ed è che, in questo marasma di temporalità alterata, i parametri spaziali e di posizione del corpo siano ben fissati e con precisione balistica da far invidia ad un tiratore scelto come già face Leo de Berardinis nei suoi memorabili Giganti, dove faceva rivivere austeramente, con una lunga veste femminile e sacerdotale, agendo dalle parti del velluto del sipario aperto sui bordi della scena, il mito del grande attore incarnato dalla Duse. Ogni spostamento del corpo nello spazio non ha unicamente il ruolo di segnare distintivamente l’impersonificazione dei vari personaggi ma è, in un percorso di decostruzione genealogica, una vera è propria cartografia di un luogo. E questo luogo, che è il nulla, è la forma geometrica del palcoscenico. In questo Latini sembra elevare al cubo quello che Pirandello aveva elevato al quadrato: il discorso riflessivo sulla forma teatrale.


Tirando le somme, uno spettacolo di livello raro a cui la categoria del “mi piace/non mi piace” non riesce a scalfire la sua purezza.

Alla fine, arriva la Fine che travalica la fine della messa in scena e lascia una incrinatura di dolore di vivere, perché l’attore i fantasmi li fa, li crea, e così si illude di contrastare o realizzare la vita: “Siamo fanciulli che prendono sul serio il loro gioco”. Senza più volto, quasi con rassegnata, rastremata disperazione, con il volto cancellato da una calza, pronto a diventare uno spaventapasseri crocifisso su quel campo tra i versi dei corvi, con un filo ancora di fede: “L’alba per l’avvenire, il tramonto per il passato”. Finale sospeso che si consuma, lento e onirico, sull’aria “Una furtiva lagrima” di Donizetti cantata da Enrico Caruso. Il palco vuoto, la sedia messa di spalle al pubblico, al posto del fondale, mentre fuori incombono i Giganti e su gli occhi degli spettatori deve calare un cielo nero che forse, a qualcuno, potrà evocare lo schianto della carretta dei comici sotto il sipario tagliaferro dell’ultima, disperata versione di Strehler.


Efestoval

I giganti della montagna – Radio Edit
di Luigi Pirandello
adattamento e regia Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica Max Mugnai
realizzazione elementi di scena Silvano Santinelli
produzione Fortebraccio Teatro
in collaborazione con Armunia Festival Costa degli Etruschi, Festival Orizzonti, Fondazione Orizzonti d’Arte, Emilia Romagna Teatro Fondazione
lingua italiano
durata 50'
Bacoli (NA), Parco Monumentale di Baia, 17 settembre 2016
in scena 17 settembre 2016 (data unica)


Video integrale: I GIGANTI DELLA MONTAGNA (Fortebraccio Teatro) 

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