Torturatrici che sorridono e si lagnano - "conteporaneamente" - davanti all’obiettivo - (#1 parte)

Medea sopravvive a Gabriele Lavia e si smarca dall’aderenza all’attualità 

di Luigi Furno

Forse aveva ragione Robert Graves, fascinosamente affermando la storica (?) verità d’una Medea commissionata (15 talenti d’argento il prezzo, che tanto ricordano l’esborso d’altro e più famoso tradimento) al Maestro Euripide dalla città di Corinto, per far ricadere la colpa dell’omicidio dei figli di Giasone e dei misfatti di Re Creonte sulla strega straniera. Mai macchina mediatica è stata tanto infangante e così efficace, mai menzogna detta altrettanto bene, tanto che già ai tempi di Seneca – primo di tanti a rimuginare sulla tragedia – il nome aveva traslato di senso diventato comune sostantivo ad indicar la madre che trucida i figli, distogliendo così – arma perfetta di distrazione di massa, “delitto perfetto” direbbe Baudrillard – l’attenzione dalla verità. In mancanza d’Euripide, questa oscena miscela di razzismo e sessismo violento, avrebbe diversamente dipinto l’alba della civiltà greca: tuttavia, proprio perché mette in luce, per chi le sa vedere e leggere, le perenni contraddizioni del potere, Medea acquista l’eternità, ch’è sempreverde attualità. 

L'attualità, però, è un fabbisogno di concretezza temporale – rendere attuale oggi qualcosa che lo è stato nel passato – che rischia di trasformare il dramma classico, con la sua anacronia, in un susseguirsi di fatti che equipara la trama, svuotandola, allo storytelling di uno sceneggiato televisivo. Questo è il rischio che ha scelto di correre, inciampando e sbattendo inevitabilmente, Gabriele Lavia nel suo ultimo spettacolo. Rischio, su cui i più rovinano, di confondere una storia che sia capace, e quindi attuale, di dire qualcosa in ogni tempo, con quella capace di dire qualcosa su tutto il Tempo – iper-attuale (più attuale dell’attualità, quindi in-attuale). Medea, in questo paradosso, è l’inattuale perché non è riducibile al mondano tradimento, all’omicidio, alla vendetta, alla gelosia, alla violenza. Non è sceneggiabile, infatti, perché squaderna e spagina lo sceneggiato e perfino la scenggiatura. Non si può ricondurla allo trama, semmai Medea sfila la trama, come Salvatore Emblema con le sue tele, per essere oltre la fiction.


Donna estranea al mondo, in quanto straniera per antonomasia in terra straniera, figlia di un sole che sorge lontano, laggiù a Oriente, nella remota Colchide dedita ad arti barbare e ormai superate dal progredire dei tempi - come la magia e il veneficio - Medea fa emergere tutte le contraddizioni della presunta superiorità etnocentrica della civiltà greca (e occidentale in genere), la messa al bando e l’ostracismo da parte della polis civile e ordinata, l’ostinata e cieca ricerca di moderazione (e quanto costa in umanità l’olimpica sicurezza e tranquillità), la mentalità piccolo borghese dell’eroe protagonista in cerca d’una buona sistemazione: Medea non capisce, Medea non ci sta, Medea reagisce nel peggiore dei modi, con una ritorsione spropositata, al limite della comprensione umana. Medea porta tatuato sul corpo la tensione alla tracotanza alla hỳbris, traslitterazione del greco ὕβρις, che significa genericamente «insolenza, tracotanza», e nella cultura greca antica è anche personificazione della prevaricazione dell’uomo contro il volere divino: Medea è l’orgoglio che, derivato dalla propria potenza o fortuna, si manifesta con un atteggiamento di ostinata sopravvalutazione delle proprie forze, e come tale viene punito dagli dèi direttamente o attraverso la condanna delle istituzioni terrene. Psicanaliticamente Medea è l’inconscio, meccanismo psichico ingovernabile che sostanzia l’agire. 

A poco più di un anno da Sinfonia d’autunno, Gabriele Lavia firma l’adattamento e la regia di “Medea” di Euripide nella traduzione di Maria Grazia Ciani. Il popolare attore e regista ha voluto legge nel capolavoro euripideo il viaggio verso un personaggio sradicato in un paese straniero: «Medea è vittima della paura dell’estraneo. Straniera in terra straniera viene vista come un pericolo e, per vendetta, alla fine, lo diventa. Medea è una donna tradita, una donna che viene da lontano. È ‘figlia del Sole’ non perché partorita dal dio Sole, ma perché viene dal mondo in cui il Sole sorge. Viene dal Caucaso, dall’Oriente, è un’altra cultura». 


Nel film Medea di Pasolini l’incitamento ad uccidere i figli viene trovato nell’astro dorato del sole, la Medea di Gabriele Lavia, invece, pur rispettando la classica scansione di Euripide, sembra rifuggire dall’astro che illumina il giorno carcerandosi nell’ambiente claustrofobico di un appartamento. Uno spazio claustrofobico dove ogni spazio, fantastica concrezione dell’universo cupo e sconsolato dello scenografo Alessio Zero, si affaccia dentro una cellula scura dell’universo della maga creando una scansione dello superficie che, se da lontano vagamente ricorda lo skyline d’una moderna polis, coi suoi grattacieli e parchi quartieri, dall’altro è invece luogo dell’abitare, privato e pubblico, lager di pensieri prigionieri e doloranti, arena in cui l’onnipresente protagonista accoglie le donne di Corinto, il re, il marito, i figli, conducendo il suo gioco perverso e aggrovigliato, lucido e confuso insieme. 

Nell’immaginario collettivo, un stanza che fa da cerniera con l’esterno si dovrà ampliare con le visioni di Room, film dell’irlandese Lenny Abrahamson, un’opera che prende spunto dal romanzo omonimo di Emma Donoghue che con tutta evidenza fa riferimento ad alcuni clamorosi casi di sequestri di persona di bambine e adolescenti avvenuti negli USA. Anche nelle scelte scenografiche di Lavia c’è un sentore che rimanda alla carcerazione, ma non ci sono porte chiuse tantomeno sbarre. Questa sensazione, quindi, non può che risolversi nell’idea di auto-carcerazione.

La stanza appartamento, c’è un lato cucina con annesso bagno, ha un aspetto rugginoso dato dall’utilizzo totale del corten per la realizzazione di tutta la scenografia. Nella visione del regista si rifà alla vasca dove annegavano le bambine dei “Sei personaggi”. Così, l’appartamento diventa un mondo a sé stante, una capsula ferrosa alla deriva nello spazio ed insieme casa borghese e ara sacrificale sede della tortura quotidiana che s’impadronisce di Medea condannandola a reiterare in eterno il rito infernale del massacro dei figli. La maga della Colchide si sdoppia così in una figura bifronte che oltre a se stessa riflette anche i connotati di Clitennestra che, in un altro bagno, attirava Agamennone nella trappola fatale.

"Se segnala un delitto in forma erudita .furiaLAB vuol dire ventilatore" - graphic .furiaLAB

A indossare i panni di Medea è Federica Di Martino, l’attrice abruzzese già diretta da Lavia negli shakespeariani Misura per Misura e Molto rumore per nulla, affiancata nel ruolo di Giasone dal 46enne attore romano Daniele Pecci. Con loro, Mario Pietramala interpreta Creonte, Angiola Baggi la Nutrice, Giorgio Crisafi il Pedagogo, Francesco Sferrazza Papa il Messaggero. Sofia De Angelis e Giulia Horak sono i Figli di Medea. Il coro è formato da Silvia Biancalana, Maria Laura Caselli, Flaminia Cuzzoli, Giulia Gallone Silvia Maino, Diletta Masetti, Katia Mirabella, Sara Missaglia, Francesca Muoio, Marta Pizzigallo, Malvina Ruggiano, Anna Scola, Lorenza Sorino. La scenografia è di Alessandro Camera; i costumi di Alessio Zero; le musiche di Giordano Corapi, Andrea Nicolini; le luci di Michelangelo Vitullo. La produzione è del Teatro Stabile di Napoli con Fondazione Teatro della Toscana.

Continua…

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