Cercopiteco mesmerico


di Luigi Furno


In verità, ci sono ma sono un fantasma che parla coi morti, per i morti, attraverso i morti. 

Ricordo, ed è bello per me poterlo rifare oggi, che un giorno mio padre mi disse che c’era un cercopiteco dentro di me. Ho ritrovato, in un vecchio quaderno di pelle nera, quest’appunto: “mio figlio ha un cercopiteco al posto del cuore”. Questa cosa mi ossessiona. Mi è entrata nella vita neanche fosse una cimice puzzolente Disse proprio così: “C’è una specie di grosso cercopiteco dentro di te”. Ne avrei dovuto avere una paura furibonda, invece, non capii una mazza, me ne dolevo, e non sapevo cosa volesse dire con quel termine fuorviante: “C-E-R-C-O-P-I-T-E-C-O”. Mio padre era fatto così, un uomo buono che annaspava parole complicate come il Mascellodonte di Lewis Carroll. Questa fu una delle sue idee fisse che non mollo mai fino alla fine, che credo debba ancora arrivare. Aveva questo amore sconsiderato per il Mascellodonte di Carroll; una specie di qualcosa che non so ben definire cosa fosse. Gli occhi inquietanti, quando la recitava, si illuminavano e acquisivano la densità dei fanali accesi delle macchine in panne nelle strade provinciali. 

Ricordo come rimbalzava e fischiava il vento tra quelle piccole sillabe afone, come cercassi il senso in quel fischio malato tra le mura di casa, in un mondo aperto come uno squarta papera che non capivo, un volto strano, che non conoscevo, appariva nella finestra del terzo piano del palazzo difronte, una specie di sagoma ritagliata nella cornice nera del buio. Frusciava il vento così, tra le sillabe afone del “cercopiteco dentro di me”. 

Molto in superficie, ma molto più in superficie di quello che un umorale possa credere, quello che è essenziale raccontare – restare sempre ancorato alla robusta bitta del porto del restare un superficiale – è una storia che mostri come noi tutti, in ogni elemento apparente, offendiamo e siamo offesi e ci vendichiamo uno dell’altro.

Tra i morti, ad accoglierti, c’è la voce di Arbasino che, affannato, rincorre tra la folla sulla piattaforma di una stazione ferroviaria un Oscar Wilde esagitato e ringhiante per estirpargli un’ultima verità. “Tenga presente che la verità non è mai pura e quasi mai semplice. Senza pensare che sarebbe terribile un bel giorno accorgersi di aver detto la verità per tutta la vita”. Mmmmm… 



Diciamo così; l’intervista non è una cosa seria, non lo può essere oltremodo quando a chiedere è un moribondo e a rispondere è addirittura un morto. Questa è una formula antica di manifestazione medianica, quella di parlare con un morto illustre. Non per una genealogia, che banale non può che essere, già Platone dialogava con il suo maestro Socrate e con molti altri suoi coinquilini del pensiero. Un po’ di anni dopo, nel 1848, la famiglia Fox nel suo cottage di Hydesdale, nella zona settentrionale dello stato di New York, iniziarono a sentire dei rumori spaventosi. Nelle storie popolari di norma questi rumori sono di solito attribuiti ai Poltergeist, tuttora inseguiti dai moderni acchiappa fantasmi. Ma le tre sorelle Fox fecero qualcosa che non aveva precedenti negli annali dei fenomeni insoliti: iniziarono a rispondere ai colpi. Per migliorare la comunicazione, le sorelle convinsero lo spirito a rispondere alle loro domande con un semplice codice; un colpo per il sì due per il no. Quello che a tutti gli effetti era un alfabeto morse paranormale, lo spiritualismo ebbe così ricodificata la sua grammatica comunicativa ormai persa dai tempi oracolari dei sumeri, egizi, greci e romani.

Carmelo Bene - che se si può avere qualche dubbio sulla sua necrofilia, sulla sua negromanzia non si può avere alcun dubbio - un giorno ebbe a dire che lui parlava spesso con Eduardo e che lo faceva ancora. Eduardo, non c’è da dirlo, era morto già da un tempo. In America sin dal primi dell’800 gli Shaker già comunicavano con gli ierofanti d’America, e i mesmeristi - Il termine deriva dal nome del medico e mistico austriaco Franz Anton Mesmer (1734-1815) - interrogavano gli spiriti attraverso i loro rimbecilliti pazienti. Franz Anton Mesmer fece la sua apparizione nel mondo medico viennese nel 1766 con la sua tesi dal titolo "Dissertazione fisico-medica sull'influsso dei pianeti". Il suo lavoro, profondamente influenzato da Isaac Newton e la scoperta della forza di gravità, voleva spiegare come i fenomeni organici fossero influenzati dagli influssi gravitazionali. In sostanza riteneva che come gli astri influenzano le cose sulla terra, le cose sulla terra influenzano l'organismo degli animali e dunque dell'uomo. Riteneva che come esistesse una gravità planetaria ne esistesse una per gli esseri viventi, gli animali appunto. Ma che a causa della sua sottigliezza fosse impalpabile. Egli studiò a lungo l’opera di Paracelso, medico del Cinquecento, il quale sosteneva che le cause, e i rimedi, delle malattie vanno cercate nelle forze dell’universo, che influiscono sulle nostre condizioni fisiche. Tra queste individuò il magnetismo, immaginandolo come un “fluido” sottile e invisibile emanato non solo dalla calamita, ma anche dal suo corpo, e con il quale pretese di curare vari disturbi.

Ma il vero Giovanni Battista dello spiritualismo fu un certo Andrei Jackson Davis che attribuì poteri soprannaturali all’elettromagnetismo, dichiarando che una dimostrazione vivente della comunicazione spirituale era a portata di mano. È? Non ero io, e quello che sentivo era Oscar Wilde. Io, peccatore necessario e insalvabile, escluso da tutti i giardini, destinato a perdermi quand’anche fossi rimasto prigioniero elettromagnetizzato da quel suono.



Ho sempre sognato di fotografare questi picchi rocciosi che ho in testa. In tutto il mondo sono presenti dei ritratti del deserto. Gli elefanti del deserto si sono adattati alla guerra e alla decimazione sul biplano rosso. E impossibile atterrare in un piano e comunicare con questo ragnetto di velluto. Se il contenuto dello zaino sarà intatto potrò dirigermi in una striscia d’acqua. Il luogotenente della fatalità avrà il suo lavoro da svolgere e da non svolgere per tornare alla maggiore comunicazione su carta e penna. “Queste sette cifre sono sfortunatamente… byte del niente”.

Sotto lo sguardo ammirevole di mio padre, io, da bimbo, giocavo con una bambola di porcellana. Era vestita di nero merlettato, sembrava la Madonna addolorata che mi faceva paura nel periodo di pasqua, quando Cristo, nel Cappellone della Vergine (Refugium Peccatorum) della Chiesa di San Severo, moriva appeso da coniglio scuoiato ad un palo di castagno, come quelli che sorreggono le rotaia della ferrovia, con quelle mani tenute in verticale, su, come un San Sebastiano qualsiasi arresosi all’evidenza mondana dell’assenza, e, al suo posto, emergeva o risorgeva, nella maniera più insospettata da qualche sottoscala della canonica, questa Madonna nera vestita e pugnalata nel cuore. La mia bambola nera, non era così, non era pugnalata in petto. Anche se un giorno mi cadde giù dal balcone e la sua testa frantumata sparse, sul marciapiedi e sull’asfalto della strada, piccoli frammenti e polviscolo di ceramica che venivano passati a molitura sempre più fine ad ogni passaggio di automobile. Quella bambola, che per me era più che viva, aveva subito una sorte ben più tremenda della Madonna addolorata di nero vestita e col cuore pugnalato. Nel gesto del vivente, pensai, il vivibile non diventa mai vissuto. Stop. 

Fermate il cercopiteco, mesmerizzatelo. Stop.

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