PORCO. - (#5 parte)


di Luigi Furno

( - piccola premessa - Porco. è un racconto proposto a puntate, a frammenti. Qui siamo alla quarta parte. In esso si presenta la fuga e la speranza del capitano Hoppiter, la bestialità di un porco e l’indecenza dell’io. In Porco. il pensiero è essiccato, demidollizzato. In esso, il “pensare” equivale a parlare senza sapere in che lingua si parli, quale retorica si usi, senza avere la più pallida idea del significato che la forma del suo linguaggio e della sua retorica sostituisce a quella su cui il “pensiero” vorrebbe decidere. Non ha forma. La poesia ha una forma; il romanzo ha una forma. Il Porco. è uno specchio che ci deforma. Il porco è un mistero che per noi può, in pieno giorno, apparire qualcosa che non sia giorno, qualcosa che in un’atmosfera di limpida luce rappresenti il brivido di terrore da cui il giorno è nato. Una bella follia: parlare. Grazie a questo, l’uomo danza su tutte le cose e al di sopra di esse. Buona lettura).


- C’è una differenza nell’amore –  disse il maiale, mentre si contorceva in sbavose pose, mostrandomi i denti come se sorridesse. Poi fece una lunga pisciata che percorse nella polvere fino alla mia mano destra poggiata a terra. –  L’amore è una grande eco d’anima vuota. Tutta l’attenta affezione che hanno nei riguardi dei porci, così vigilante, è perché le loro coliche di fame si attenuino, il loro languorino si calmi.
“Alla fine ci prendi anche gusto, una confidenza intima come la si ha solo con i propri cani, cresci con la tua corazza... Crepi con la tua corazza, nella tua corazza, stretto, bendato, insaccato, abbottonato, rinserrato, lucidato, brillante Robots, scafandro strisciante sottomesso l’inumano peso di un equipaggiamento provvisto di diecimila ferruzzi e fili; quasi immobile, nella totale cecità, provando a tastoni, impari a strisciare nella direzione giusta, per istinto, ritienilo pure sopravvivenza se ti gratifica, verso il grandioso scopo luminoso delle propria esistenze, in fondo a tutte queste tenebre... Avere salva la pelle. Averne una, intatta, da riportare a casa.
Il minimo contatto visivo con la canna del nemico, un contatto emotivo e diretto col torrente umano che ti si pone davanti… ed eccoti morto! Stavolta, senza troppe chiacchiere... Tutti questi si muovono nel fondo della corrente, strisciano come avresti dovuto strisciare tu per avere salva la pelle, come nel fondo di un fiume troppo pesante in cui inabissare la paura, sotto un peso enorme di tradimenti accarezzanti, sordamente, avvolti in sgargianti scafandri, meravigliati e impasticciati da centomila precauzioni! Non ci deve essere comunicazione col mondo, se non per mezzo del fuoco ben direzionato”.
-  Uomo, quanto ti piace sparare a te? Quanto piacere ci provi?
“Niente, non c’è piacere. Sparo di là chiama tiro di qua, e vai e vieni. Il tiro io lo cerco, e cerco un movimento altrui, un’inaccortezza, come un malandrino che malandrineggia. Alle volte, i tiri infuriano a ventaglio, su un unico tratto. C’è un desiderio inumano di voler trapuntare lo spazio, l’aria e il tempo tutto. E le ore non finiscono mai di passare definitivamente, ne rimane sempre qualche inutile rimasuglio per pensare a come si poteva stare e a come, invece, si è. Il sole, in certi casi, picchia sulla nostra testa come un randello senza preavviso. Sole, solleone.”
Iniziai a sudare tutto, specialmente di sotto, traspiravo liquido salato dai capelli, e di dietro gli indumenti, tanto era forte che solleticavano fremiti di prurito dietro la schiena; e certi formicolii, che solo l’astuzia alla gioia ingiustificata mi faceva vedere risibili, in qualche altra parte del corpo.
Non c’era modo di andare avanti, fermi e sepolti in questa porcilaia, io e il capitano Hoppiter morto. Non c’era modo di respingere neanche il grufolare del porco che faceva alzare il suo fetore defecante. E nei suoi occhi, intrisi di paura come i miei, c’era la stessa macelleria che si aspettava. Il fuoco fuori non scemava, si picchiava sempre più forte. Branco di cani rabbiosi. Anche insultare era un modo per mostrare il fianco, smisi di farlo molto presto.


“Maiale, tu pensi che tutto questo sia normale? La carne trema nei pressi di altra carne che trama. Questo è normale? Guarda la mia carne; guarda come trema sotto la tua. Cosa cerchi con le narici? La mia pelle? Un punto di contatto e ancora da venire. Quell’odore che possa istigarti meglio, la fame lontano dal colore del sangue. Ripugnanza. Ripugnanza che uno deve cacciare via dalla mente, io stavo qui per ammazzare gli altri e non te – e non era peccato? Perché mi lecchi? Per la stessa ragione; per ammazzare gli altri? Questo non è peccato né per te né per me. Non mi cercare, tu non mi riconoscerai”.
Il maiale eiaculava, e il suo seme scorreva, a grossi ciuffi bianchi, lungo le zampe, ed emanava certi sussurrini atroci e vomitevoli.
- Come era il capitano Hoppiter, com’è morto?
Avrei voluto non rispondere a quella domanda, ma risposi. “Come posso spiegartelo? Bene: era una grossa mistura – di un cavallo e di un pitone… o un cane grande. Io dovevo obbedirlo, far quello che lui ordinava. Lui ordinava di ammazzare. La mia volontà non corrispondeva lì, in nessun modo. Io non conoscevo quei nemici, non provavo nessuna rabbia per loro. Gente di Zigurotti, uomini riuniti sulle rive dell’Omnitite, per guadagnare i loro pochi quattrinelli sicuri, come truppa assoldata. Quanti ne sono morti per mano mia?”
Cercavo di togliermi la polvere dalla faccia con un po’ d’acqua della vasca da bagno, trasformata in abbeveratoio. Riposavo gli occhi sulla schiena del capitano Hoppiter, lì davanti a me. “Il capitano aveva già sistemato a terra lo zaino e la coperta per la notte, si era tolto la giubba della divisa, stava solo con la camicia lorda di terra. Vidi il sudore espandersi in macchia, nella camicia, in mezzo alla schiena di lui. Quella macchia scura, come un’epidemia di colera, si allargava, andava crescendo, arrotondandosi. Il capitano Hoppiter sparava, scuotendo forte il corpo. Eravamo amici, in fondo, e quello che ci legava era il nostro minuzioso coraggio. Guardandolo, iniziai a sparare anche io. “Fuoco e piombo” iniziai ad urlare. “Fuoco e piombo… Piombo e fuoco…” Qualcosa mi mordeva con denti d’acciaio al posto del cuore, avevo una furia che mi percorreva dentro. “Che è stato? Che è?” ho chiesto al capitano Hoppiter. “Niente no!” rispose.  “Fuoco e piombo… Piombo e fuoco…” Merda! Smisi di sparare e trattenni forte il respiro. Hoppiter mi afferrò, da vicino, e cadde annaspando in terra. Poveretto. Rancolò ancora, per un secondo, con la faccia nella merda di porco e i piedi che si inarcavano nella polvere. L’avevano preso e trucidato tutto, di certo era finito fatto a pezzi che manco un coniglio in una muta di cani. Spero almeno che sia tornato pari con Dio, che abbia messo appunto le sue cose”.


Continua...

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