Per Emma Dante "la merda non conosce crisi"


di Luigi Furno



«Allora vieni, se è vero che non hai paura di andare al di là della vita e della morte del mondo». Antonio Moresco


Internet è una bella metafora, non c’è che dire. Ma non funziona bene; il suo campo di azione semantico si limita ad essere un scialba analogia della navigazione. Sì, ok, il mare è grazioso, certe volte ti rimette in sesto, ma navigare non è abbastanza, o almeno non è l’unico luogo dove volersi perdere. Con internet si vaga, il più delle volte ci si svaga, ma non ci si perde mai totalmente; troppo semplice tornare a casa. Infatti, Ulisse, labirintato nella tela del nostos, non si perde nell’andare, ma nel tornare. Per perdersi totalmente internet non serve; l’umanità ha sempre utilizzato, per questo scopo, la ritualità del potlach e la drammaticità del teatro. Internet si traveste da pirata col gancio e la gamba di legno e, con questa paccottiglia, gioca a fare il cattivo; il teatro, in un certo senso di riverso, ha nel suo orizzonte la pozza di sangue dove Tiresia mira veggente. Nel teatro, in quello di Emma Dante per esempio, i naviganti morti cominciano a bucare i “sistemi internet” dei vivi, come i vivi cominciano a bucare quello dei morti. Appaiono, sugli schermi di morti e dei vivi, i primi sfondamenti di continente. La porta dell’Ade si spalanca all’andirivieni e ai traghettamenti feroci. I sistemi dei domini del reale a tenuta stagna cominciano a tracimare. Gli spettatori vedono e si trovano tra le mani fatti dei morti, così come i morti sulla scena, reali, ricevono segnali di vita dai morti-vivi in platea.


Per riuscire ad amplificare questi movimenti, c’è bisogno di un colore che riesca a disarticolare la percezione dello spazio e del tempo. Il nero, forse è l’unico, possiede questo relativismo cromatico. Fare un nero a teatro, però, è roba da macchinisti; fondale e quinte nere e luci spente. Il gioco è fatto, ma sarebbe inutile. Fare il nero, invece, a teatro è spaventosamente difficile. Per tutti impossibile, per il restante, quelli che ci provano, si hanno risultati per lo più oscenamente indegni.


Tutto ha inizio con un funerale a cui, molto sbadatamente, associamo il nero. Così, forse, era il teatro alle origini: un funerale tetro, una tragedia in uniforme da clown, qualche sciocchezza per segnalare chi c’era e chi no… insomma, la vita del teatro orbita nel nero. Nero è Le sorelle Macaluso di Emma Dante. Un nero da uniforme luttuoso, da lamento originario, da fisicità estrema che suda il corpo, lo bagna, lo unge estremamente fino a capovolgerlo in una estrema unzione.


Non stupisce quanto un nome possa essere un presagio, nomen omen come dicevano i latini. Un cognome, così esageratamente connotato, come quello di Emma Dante, conveniunt rebus nomina saepe suis (spesso i nomi sono appropriati alle cose/persone cui appartengono), e già di per se un presagio di chi deve ed ha bisogno, una esigenza ancestrale, di traghettare nell’al di là rievocando l’al di qua, in un limbo di morti viventi che affascina, abbraccia, un gioco sul limite che gioca a farci immergere e annegare in una storia familiare dalla portata universale.


Dal nero ovattato della scena emerge il nero totale, buoi dentro e fuori, della famiglia Macaluso.


Il Teatro Stabile di Napoli, nell’ambito del progetto europeo “Città in Scena – Cities on Stage”, torna a produrre una creazione di Emma Dante, Le sorelle Macaluso. Nella sua nota, la regista palermitana scrive: "Un controluce impedisce ai nostri occhi di vedere sul fondo. Sul fondo c’è l’oscurità. La scena è vuota. Soltanto ombre abitano questo vuoto finché un corpo, dal cono di buio, viene lanciato verso di noi. L’oscurità espelle una donna. Adulta. Segnata. A lutto. Viene danzando verso di noi. Dal fondo, a poco a poco, appaiono tre, cinque, sette, dieci facce. Sono vivi e morti mescolati insieme. Ma non si capisce chi è vivo e non si capisce chi è morto. Tutti sono a lutto. A lutto eterno. Il piccolo popolo avanza verso di noi con passo sicuro. La donna danzante si unisce al corteo. “Le sorelle Macaluso” sono uno stormo di uccelli che partecipano al proprio funerale e a quello degli altri. Sospesi tra la terra e il cielo. In confusione tra vita e morte”.


L'incipit dello spettacolo muove da Camus e dal suo "L'étranger": «Aujourd'hui, maman est morte. Ou peut-être hier, je ne sais pas» (Oggi mamma è morta. O forse era ieri, non lo so), ma subito, un tale riferimento letterario alto, viene sabotato e ancorato al suolo da un episodio reale che fa da humus al lavoro, come racconta Emma Dante: «Tutto si ispira al piccolo racconto che mi fece una volta un amico. Sua nonna, nel delirio della malattia, una notte chiamò la figlia urlando. La figlia corse al suo letto e la madre le chiese: “In definitiva io sugnu viva o morta?”. La figlia rispose: “Viva! Sei viva mamma!”. E la madre beffarda rispose: “See viva! Avi ca sugnu morta e ‘un mi dicìti niente p’un fàrimi scantàri” (Sì, viva! Io sono morta da un pezzo e voi non me lo dite per non spaventarmi)».


All'inizio, in scena, c'è un lungo buio. E dal buio emerge ad un tratto, come in lente distorta di un telescopio in certe osservazioni astronomiche, la luce di un corpo che sembra nascere, come un diamante, nel preciso istante in cui ci arriva agli occhi la sua piroetta. Le posture eleganti si alterano scomponendosi e s’intrecciano in frasi di danza che, già dopo poco, mostrano nell'inceppo del ritmo fracassato la ferita di una coercizione, come se fossero condannate ad essere la parodia di sé stesse: come se quel corpo di donna, in realtà, tutt'altro che appena nato, portasse sulle spalle il peso annichilente di un lungo passato, scontornato nel buio dello spazio, invisibile ma gravante dall'interno. In questo modo, la Dante, riesce a realizzare il suo “nero”. Un nero che ha la caricatura fisica di un buco nero che fagocita i piani, temporali e spaziali, rendendo presente ogni attimo e ogni dove. Ogni modalità di presenza pone i suoi margini al pubblico accoppiamento con tutti gli altri margini di tutte le modalità. C'è, al posto di questi margini, una compresenza rituale e dialogica, un tentativo di negare o scavalcare la morte delle persone care; ma anche di slogare il tempo e lo spazio fino a realizzare, con la lucidità paradossale della follia, un'immacolata prova di senso.


Da questa prima traiettoria di una sorella cominciano a intrecciarsi, con tagli perpendicolari, le articolazioni rigide degli altri attori, tutti vestiti a lutto: compongono in breve una torma militare e funebre al tempo stesso, innalzano come un satanasso un crocifisso e, muovendosi tra il boccascena e il fondo del palco, invertono la marcia sempre nel punto in cui un estremo lembo di luce segna il limite prima della scomparsa. Questa è la metafora centrale di tutta la rappresentazione: le sorelle Macaluso stanno celebrando il funerale di una di loro, ignara però della sua stessa morte. Mentre rievocano i ricordi familiari durante la veglia funebre - sia per loro sia per il pubblico -, i margini tra il passato e il presente, e tra i vivi e i morti, si annullano. Il nero, che è in sostanza un buco nero, funziona a perfezione. Da questa catena asemantica, emerge gradualmente il grammelot, che a sua volta si evolve nel ricorso al dialetto siciliano. Dentro questo inferno di anime che rasentano l’incompressibile - nel gioco liminare che cerca di decifrare il vero grado di morte presente in un corpo vivo - regna indefessa, come sottotesto, la risata, una falda acquifera ignobile capace, anche quando non zampilla, d'innervare i momenti drammatici del loro contrario.


In un mondo di soggetti che si stagliano indefessi su questo vuoto, si vive in un’ambiguità. Non siamo in presenza, come afferma la regista, di uno stormo, come quello degli uccelli, ma in un corpo unico che si dipana in diverse articolazioni. Le diverse articolazioni sono i diversi soggetti che compongono la famiglia. In uno stormo di uccelli, che si muovono all’unisono, è facile seguire il movimento del singolo. Nello stormo della famiglia Macaluso i singoli sono indistinti e le diverse personalità sono interscambiabili. Alla fine dello spettacolo, non è semplice contare quante fossero le sorelle in scena. Cinque, sei, forse otto? Tra chi entra, chi esce, chi è vivo, chi è morto, non è semplice portare il conto. Qui, in questa impossibilità di contabilizzare, nasce l’aspetto più interessante dello spettacolo: unità del destino della famiglia, unità unisona del fallimento. Questo rende tutti i componenti, legati stretti da nervi tesissimi nell’idea beckettiana di provarci ancora per perdere meglio, un unico corpo disarmato. Una condanna esistenzialistica del guardarsi vivere, il lubrico e continuo mancare dell'io a sé stesso, senza riuscirsi a collocare nel mondo. Ma anche qualcosa di più concreto e meno psicologico. Le anime dell’inferno sono indistinte, tutte eternamente uguali, e quindi - come dice in punto dello spettacolo la madre delle sorelle - “avete tutte torto, e avete tutte ragione, ma vi dovete volere bene… e non dovete mai smettere di ridere, di ballare e di cantare… e ogni tanto vi dovete sciogliere i capelli, sbottonare la camicia e mettervi un po’ di rossetto… e basta”. Questa sarà la loro pena che dovranno scontare in eterno. Una delle sorelle racconta che il suo lavoro di infermiera gli piace molto, ma quello che veramente le piace e ballare e, in scena, da morta, ballerà in eterno. Nasce, qui, una sensazione destinata ad emergere molte volte nel corso dello spettacolo: quella di un'eterodirezione, come se le anime in scena fossero destinate a rimanere marionette di un qualche imperscrutabile orrore o, piuttosto, di un errore.


I vivi e i morti sono uniti dalla stessa condizione: essere posseduti dai loro gesti. Il padre Macaluso ha un destino che è il suo mestiere: essere merdaiolo (lavora infatti come spurgatore). Il suo gesto non conosce crisi. Essere merda è la sua metafora, e come lui ripete: "la merda non conosce crisi". Alcuni di questi gesti, in particolare, diventano un modulo ripetitivo, una sequenza fissa che la Dante dispone ritmicamente: si potrebbe parlare di una partitura se non fosse necessario scrollarsi di dosso certe metafore musicali del teatralese. I gesti delle sorelle Macaluso, infatti, somigliano molto più a quelli che nella musica elettronica si chiamano "glitch", errori di funzionamento, trasformabili per l'appunto in risorsa espressiva e ritmica. Questo meccanismo della pièce è chiaramente decifrabile nel finale sul corpo di una della sorella, che ha appena scoperto di essere morta, su cui indugiano, come in una tavola anatomica, le caravaggesche luci di Cristian Zucaro. Le fasce muscolari che animano le braccia e le gambe comandano, in una danza disperata, il corpo dall'interno, mentre la morta danzante prova affannosamente a coprire le nudità con il suo tutù bianco da bambina, che a fatica le raggiunge il bacino. C'è all'interno una vita, nostro malgrado, una vita senza obbedienza, soprattutto quando vuole abbandonarci: uno scheletro dell'anima, su cui l'anima può solo arrampicarsi.


Su tutto lo spettacolo accade quasi un miracolo, però. Su tutto non aleggia solo la negatività. Indubbiamente tutti i gesti e i sogni della famiglia Macaluso sono interrotti, quasi abortiti sulle labbra, e possono avverarsi solo in questo buco nero come movimento ripetuto e affogato luttuosamente all’infinito. Ogni gesto, ogni sogno, non ha vita nella vita ma, come un meccanismo a molle, si realizza solo nella ripetitività della morte. Questo fa dello spettacolo un enorme analisi del reale senza cadere, come troppo spesso accade, in uno storpiante scimmiottesco saggio sociologico. In questa vicinanza affettiva ad una fragilità che non mima nessun segreto e nessuno svelamento, ma solo il suo stare in piedi su cartilagini di cera, si capisce che Le sorelle Macaluso è un capolavoro. Il suo essere capolavoro sta nel suo essere normale. Nell’arte più inquinata, com’è il teatro, da sciacalli e cialtroni, essere su questo livello, che dovrebbe essere normale, è un miracolo. Le sorelle Macaluso quindi, per demerito di tutto il resto, è un capolavoro. Chi fa davvero silenzio può sentire, forse, il piccolissimo ronzio di una magnetica in azione: è da lì che nasce il teatro; da lì – ogni tanto – l'invisibile si fa senso e corpo. 






Le Sorelle Macaluso

testo e regia: Emma Dante

con: Serena Barone, Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Italia Carroccio, Davide Celona, Marcella Colaianni, Alessandra Fazzino, Daniela Macaluso, Leonarda Saffi, Stephanie Taillandier

luci: Cristian Zucaro

armature: Gaetano Lo Monaco Celano

foto: Carmine Maringola

produzione: Teatro Stabile di Napoli, Théâtre National (Bruxelles), Festival d'Avignon, Folkteatern (Göteborg) in collaborazione con Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale

durata: 1h 10




Articolo già pubblicato su bMagazine

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