Benevento Città Spettacolo 2015 presenta un festival per “abbonati”




Di Luigi Furno – Ursula Iannone



Dalle nostre parti la malafede è endemica ma, peggio della malafede può fare solo un malaffare fatto senza malafede. Questo è quello che, da almeno un decennio, sta accadendo al festival teatrale Benevento Città Spettacolo. È invecchiato senza mai avere uno sviluppo sessuale che gli permettesse di generare una prole a sua volta generativa. Ora, questo festival è un vecchio rimbambito che si contorce molle nella sua lentezza ed è senza figli o nipoti che possano alleviare i suoi mali. Muore tra rantoli sordi inascoltati e mani agonizzanti che elemosinano aiuto nella più totale solitudine. Il carburante che gli dovrebbe garantire propulsione è da tempo esaurito e i suoi organizzatori subiscono un definitivo blocco intestinale che li costringe a non riuscire neanche a produrre una “cacata” edificante. Benevento Città Spettacolo è oltre la defecazione, è una cacca di cane secca abbandonata su un marciapiede ad indurire. Con parole anglofone, è una crew start down. 

Indubbiamente, negli anni della sua nascita il progetto Città Spettacolo aveva un’eco abnorme per una città di provincia e provinciale come Benevento. In definitiva la città, vittima di un shock improvviso, è passata da un assetto culturale profondamente televisivo “premoderno” ad una rappresentanza midcult di massa senza quasi attraversare la modernità, cioè la vera epoca di un teatro non legato all’intrattenimento abbrutente. Il Festival, fin dalle origine, e bisogna dirlo, ha importato il “Teatro” come s'importa una pianta esotica, condannata a non acclimatarsi mai del tutto. Il teatro a Benevento è nato midcult, rimuovendo la crisi anziché risolverla, e ci è stato imposto con una tale violenza dall’esterno che ormai lo si identifica come una succursale di campagna del teatro partenopeo. Per tutti, da decenni, il Festival beneventano non è neanche più terra di conquista. Qui non vogliono ramificare niente, non vogliono mettere nessuna radice in questo pantano. Ci trattano come i cani trattano le aiuole; arrivano, ci pisciano addosso e raspando con le zampe ritornano a farsi i fatti loro da altre parti. Di qui, il riproporsi in termini quasi epici di quello che è, direbbe Alberto Savinio, il «sogno pompiere» per eccellenza della cultura beneventana: il considerare, da parte degli amministratori locali, Benevento Città Spettacolo come la massima espressione della proposta culturale. In sostanza, non possiedono altro orizzonte mentale. Una visione miope che hanno alimentato fino al parossismo, fino a far diventare il Festival un peso per cui nessuno ha le palle di essere il responsabile della definitiva morte. Un sogno divenuto allucinazione generale negli anni Zero, quando lo scontro era tra “Città Spettacolo” e “4 Notti e più di luna piena”, due visioni che si contrapponevano in una guerra fredda che spostava buona parte del consenso popolare sulla seconda, inculcando nel beneventano il mito della fruizione aggratis per immacolata concessione di sua maestà Mastella, e che trasformò assessori per puro spirito di contrapposizione politica, che fino al giorno prima si erano occupati di cultura solo come frequentatori di sagre di peperoni imbottiti, in paladini irreprensibili del valore storico e imprescindibile del festival settembrino. Questo è un tempo in cui i Traumi Collettivi hanno ridato fiato alla retorica su un realismo non più legato al dialettico storicismo moderno, ma al brutale storicismo dei media. Così oggi, adottando pretenziosi straniamenti distopici e formali o cedendo a un engagement pubblicitario, tutti gli attori che tengono in piedi questo piccolissimo barcone alla deriva non riconoscono che, tra individui e grandi eventi, si estende ormai una palude informe d'insensatezza, incomunicabilità e d'impotenza. Si finge di dominare il contesto sociopolitico, cioè lo si mistifica.

Qui da noi, molti direttori artistici hanno aspirato all'affresco Eco-Socio-Meta-Psico-Teo-Politico del Teatro. Ma salvo pochissimi momenti di lucida ingegneria, il respiro è stato corto, la lingua falsa, ed ha imperato il consueto cibreo di famigghia e finanziamenti sperperati, parmigiana della zia e pseudo-primissime nazionali, sadismo fumettistico e produzioni condominiali. 

Più o meno dalla fine degli anni ottanta, un altro spettro si aggira sulla città di Benevento: lo spettro del Grande Teatro. Ma a differenza del comunismo, che è crollato ufficialmente nell’ottantanove, non è svanito: e, anzi, ha inghiottito il cadavere marxista trasformandolo in storytelling. L'associazione non va considerata frivola. Se non è un correlativo estetico del marxismo, il teatro lo è certo della filosofia della storia dal marxismo presupposta, quella che si è andata coagulando tra Sette e Ottocento, e che indicando un'omologia tra le vicende degli individui e le vicende della società, confida che la sorte degli uni specchi e spieghi la sorte dell'altra. Appena questa fede s'incrina, il genere vacilla. Dal primo Novecento, private di un ragionevole nesso tra storia individuale e collettiva, tutte le trame in apparenza si equivalgono, e sembra che si continui a scrivere per il teatro come si scrivono opere liriche: con una malafede che diminuisce solo nei tempi e nei luoghi in cui un trauma profondo torna a stringere il legame tra i destini generali e quello di ognuno. Questo legame a Benevento è ormai lacerato e i singoli, del destino di Città Spettacolo, se ne sbattono apertamente. L’unico interesse che hanno per la cosa è occupato dal tempo che dedicano per sbeffeggiarlo sui social.

In questo oceano sterminato di indifferenza si fa il gioco del tirare a campare. Il giochino è talmente incancrenito e morente che non ha quasi nessuna possibilità di redenzione e salvezza. Le scelte che si possono fare, per salvare questo Festival, sono obbligate e sono sempre quelle sbagliate. Non è colpa di assessori o direttori artistici, loro sono pedine in balia, una pantomima di ruoli funzionali ad un sistema omeostatico. La loro persona è indifferente, la loro professionalità è completamente spuria, sono intercambiabili perché la loro singolarità non serve a niente. Questi soggetti sono il nulla più edificante che sia mai esistito ma non possono essere eliminati se non vogliamo che il sistema crolli e lasci dietro di se solo cenere. 

Nell’edizione di quest’anno, solo per fare un esempio esplicativo, c’è in cartellone uno dei massimi esponenti di questi filistei inutili. Il suo nome è Luca De Fusco e molti avranno già sentito parlare di lui.

Luca De Fusco è l’immagine perfetta di sistema omeostatico perfettamente funzionante. Lui esemplifica l’idea di nullità che tiene in piedi l’intero sistema e a cui Giulio Baffi, direttore artistico di Benevento Città Spettacolo, si deve aggrappare per non naufragare in due centimetri d’acqua.

Dal luglio 2011, Luca De Fusco è direttore del Teatro Stabile di Napoli (Mercadante e San Ferdinando), da poco divenuto Teatro Nazionale, e, fino a qualche mese fa, direttore artistico del Napoli Teatro Festival da cui si è stato costretto a dimettersi per un evidente conflitto di interessi. 

La sua ascesa nel teatro partenopeo sembra essere legata a stretti rapporti con il mondo politico.

Troppo stretta la vicinanza tra il deus ex machina del teatro partenopeo e l'ex Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, nonché ex "patron" del teatro nazionale, Gianni Letta. E troppi sospetti su di un'ulteriore ipotesi che attribuirebbe l'ascesa di De Fusco a logiche di accordi politici connessi all'andamento delle Regionali e ai buchi di bilancio risalenti nelle precedenti gestioni delle strutture. Nella fattispecie, la nomina allo Stabile sarebbe stata connessa all'erogazione dei fondi che la Regione di centrodestra erogò per far rifiatare le casse del teatro, ormai vuote. Su tali logiche che i detrattori non esitano e definire "ricattatorie", si sarebbe articolata l'intera macchina organizzativa del Napoli Teatro Festival.

Celeberrima – per gli sprechi – è stata una sua regia nel 2011 dell’"Opera da Tre Soldi" di Berthold Brecht, che costò oltre 720 mila euro. Lo spettacolo fu finanziato in parte dallo Stabile (477 mila euro) e in parte dalla Fondazione sottostante al Napoli Teatro Festival (242 mila euro), dando luogo a recriminazioni circa l'enorme conflitto d'interessi in atto. De Fusco, all’epoca, si limitò a respingere le critiche paragonandosi a Giorgio Albertazzi. Carmelo Bene, per far capire il livello anche nei paragoni, affermava di avere due cani lupi, entrambi si chiamavano Albertazzi.

De Fusco percepisce 150 mila euro annui come direttore del Mercadante e, fino a qualche mese fa, a questa cifra bisognava aggiungere centomila euro, più rimborsi spese per un massimo che sfiorava i 40 mila euro, per la direzione del Napoli Teatro Festival. Siamo a circa 290 mila euro in totale, sempre annui. Una cifra considerevole nel martoriato panorama del teatro italiano e che, addirittura, è superiore al compenso annuo del Presidente della Repubblica.

Bene, questo personaggio è la punta di diamante, secondo Giulio Baffi, della nuova edizione di Benevento Città Spettacolo. Sua, infatti, è la regia dell’Orestea di Eschilo - Agamennone (prima parte) Coefore/Eumenidi (seconda parte) –, uno spettacolo in prima nazionale che, come è chiaro ed evidente, peserà in maniera considerevole sull’intero budget artistico della manifestazione.

Questo sistema è omeostatico, è un out out, o così o crolla tutto e tutti a casa. I figuranti di questa messa in scena non sono responsabili quasi di niente se non del fatto di non farlo crollare. È semplice capire che il loro interesse non è che il sistema crolli.

Come tutti i “circuiti” chiusi, alla base del sistema che regge Benevento Città Spettacolo c’è una minutissima meccanica di feedback e di azioni da compiere e da restituire. 

Per garantirsi il finanziamento elargito dalla Regione è necessario partecipare ad un bando dove bisogna presentare il proprio “progetto”. Solo quelli considerati migliori verranno finanziati. Quindi, in fase progettuale, si deve essere molto attenti a non disturbare certe situazioni e inserire i nomi giusti che garantiscano e allaccino alcuni legami. Il gioco è finemente politico e ben poco artistico. Le pedine giuste al posto giusto sono importantissime. Luca De Fusco in questa partita a scacchi è l’alfiere che mette sotto scacco matto il Re. Averlo dalla propria parte è essenziale. Essere stato una pedina importante durante questa partita serve molto e garantisce l’accesso alle partite successive. 

Una volta ottenute queste garanzie e aver tessuto bene la propria trama, si può anche giocare svogliatamente a fare il direttore artistico coinvolgendo gratis ragazzi del Conservatorio e qualche scuola di danza, rilanciando spettacoli che hanno vinto un premio in qualche concorso di cui si è stato giurato e organizzando qualche letturina pubblica, e via di seguito. In tal modo si tiene sempre accesso il lumino affianco alla lapide di Benevento Città Spettacolo, alla fin fine la memoria di questo morto può tornare sempre utile.

L’articolo 139 della Costituzione Italiana recita: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. 

È una buona metafora. Non possiamo trasformare questa forma di sistema teatrale con gli stessi soggetti che mantengono in piedi l’ordine costituito.






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