( - piccola premessa - Porco. è un racconto proposto a
puntate, a frammenti. Qui siamo alla quarta parte. In esso si presenta la fuga
e la speranza del capitano Hoppiter, la bestialità di un porco e l’indecenza
dell’io. In Porco. il pensiero è essiccato, demidollizzato. In esso, il
“pensare” equivale a parlare senza sapere in che lingua si parli, quale
retorica si usi, senza avere la più pallida idea del significato che la forma
del suo linguaggio e della sua retorica sostituisce a quella su cui il “pensiero”
vorrebbe decidere. Non ha forma. La poesia ha una forma; il romanzo ha una
forma. Il Porco. è uno specchio che ci deforma. Il porco è un mistero che per
noi può, in pieno giorno, apparire qualcosa che non sia giorno, qualcosa che in
un’atmosfera di limpida luce rappresenti il brivido di terrore da cui il giorno
è nato. Una bella follia: parlare. Grazie a questo, l’uomo danza su tutte le
cose e al di sopra di esse. Buona lettura).
- Hai visto spesso questi tipi di combattimenti nei
dormiveglia? – mi chiese mentre mi leccava un orecchio con la sua lunga lingua
umidiccia.
“Anche senza dormire”, risposi, “senza neanche pensarci. Ti
devi fermare e aspettare: aspettare quello che risponderanno. Parlo in termini
di fuoco di risposta – tu mi intendi? È che si sta troppo fermi; la morte ronza
come un tornado e tu fermo, immobile: vivo in mezzo a tutto; morto in mezzo a
niente. La morte? È una cosa secondaria, qui sono molluscoli di piombo,
affilati come aghi ipodermici, che flirtavano con la pelle, altrove granate,
bombe, siluri, coltelli, forconi.
Come che fosse, non si poteva avere altri lati. Si è
vulnerabili a trecentosessantacinque gradi, ogni centimetro del proprio corpo è
un banco di prova. Adesso non resta che gridare odio, se si vuole, e l'aria si
corrompe, intrecciata di sibili di ferro metallo. Nessuno in questi momenti ha
madre, non vede che la vita è soltanto violenza. Un rinculo del fucile quasi ti
sloga la spalla, ma non lo senti questo dolore, non c’è tempo per provarlo. È
ramo spezzato dall'albero la vita, lì, il comune pudore ha la consistenza della
nebbia, il comune diffondersi di polvere a terra. Lo dico a te, conversando. È
così?” – il maiale non si scompose affatto, intanto aveva preso a strofinare il
suo grosso pene sulle mie gambe.
“Di fatto caricai la carabina”, continuai col dire, anche se
mi accorgevo che il mio racconto non seguiva una linea logica, “puntai, in
ripetizione. Da tutte le parti, a caso, ovunque un mollusco vivo dava il segno
di arrendersi all’assedio.
Quegli uomini, quelli dell’altro campo, i nostri nemici,
avevano una certa cura nel mangiare polvere ma, in fatto di sparare, sciupavano
molte munizioni, sparavano con nervosismo. Troppi colpi in aria a fendere il
cielo. Ma il cielo non si offende così. Avevano paura, questo è il fatto, non
volevano morire per mano nostra, non volevano. Scoppiai a ridere a crepapelle e
il capitano Hoppiter mi chiamò, spaventato. Forse credeva che fossi impazzito.
Ma io stavo invece, all'improvviso, pensando a mio padre, Marzio Caporossi.
“Adesso, proprio tu mi lasci andare via! Non vuoi?” fu
quello che ebbi voglia di gridare al capitano Hoppiter. Cane che era. Gli risi
ancora forte, in faccia. “Uomo solo, con la carabina in mano, non ha speranza”.
Non avevo neanche fatto la domanda, ma lui aveva la risposta. Hoppiter era uno
come me, non timorava, uguale, uguale, anzi tirava peggio. E quegli uomini del
diciassettesimo, difronte a noi, si erano svegliati presto per prendersi delle
schioppettate da noi. Mi controllai.
“...Se tutti questi idioti mettono mano alle armi e spariamo
tutti in cerchio, gli uni contro gli altri, sai cosa diventiamo?” Era la
tiritera che il Capitano ripeteva, impietrito coi denti stretti. “Sai cosa
diventiamo? ...CO-LA-PA-STA. E allora il mondo finisce?”
Erano solo minuzie, che mi navigavano sotto coperta, nella
mente. Ho iniziato a contare i tiri. Quello, come stava, era cosa senza
termine”.
Il giorno era ormai chiaro e il maiale mi leccava le mani
mentre, con le anche, dava delle leggere spinte pelviche tanto che riuscivo a
sentire i suoi grossi testicoli gonfi. Il suo su e giù quasi riusciva ad
alleviare qualche mio acciacco.
“Se vuoi ti posso descrivere intero il compagno di Monte
Chiaro”, cercando di distrarlo, “stava dietro un ceppo d'albero e cespugli
spinosi di more. Cacava, ed è morto senza potersi neanche pulire il culo.
Ma perché racconto tutto questo proprio ad un maiale? Vado
lontano. Se un porco ha già visto di questa roba, se ha già visto il
coltellaccio che gli taglierà la gola, sa cos'è; se non lo sai, come puoi
arrivare a saperlo? Sono cose che non entrano, facilmente, nel terreno del
farne un'idea.
Un combattimento e tanto, troppo, è combattimento grande. Su
questi sassi e polvere la gente non striscia cambiando di posto, non è il caso
se non vuoi trovarti scuoiato come un coniglio. Ma sei costretto, avvolte,
quando si attacca una difesa quello si deve fare: perché pensino che si va in
numero maggiore del vero. Allora, strisci come un verme e la terra ti entra in
bocca. Provi a sputarla, ma lei ti si appiccica alle gengive e i sassi, aguzzi
come schegge di vetro, ti entrano negli incavi della carne martoriando, forte,
i nervi. Strisci, per sparire, così radente alla terra che, quasi, vorresti
nasconderti nel suo ventre, ma questa terra è infame, ti rifiuta, e ti tiene in
superficie alla vista di tutti… nella mira del nemico. Bisogna respirare lento,
per non farsi sentire neanche dalle proprie orecchie, di notte, di giorno,
nelle ore più assurde, dagli interstizi delle proprie armature di misero panno,
devono uscire soltanto fragili bollicine d’aria che con infiniti gluglu
risalgono verso il cielo, per salvarsi, almeno loro. Non ti feliciti mai di
essere finalmente riuscito, un giorno, a spezzare, fare a brandelli, il proprio
straordinario involucro di panno; anzi, questa divisa ti sostiene, ti rende
felice del fatto opposto, di essere cioè riuscito a infagottarsi sempre più
pesantemente, ad ingusciarsi sempre meglio, a sovraccaricarsi d’altri
schiaccianti apporti di protezione… e di conservare ancora, malgrado questo,
nel fondo delle proprie tenebre, una possibilità di gracili gesticolamenti…
artifizi scherzosi, astuzie affettate, reticenze equivoche, insomma, centrare
in fronte il nemico senza esserne mai colpito. Non riesci neanche più a
parlare; e non è poi tanto male, quel poco di silenzio in quel frastuono. Una
grancassa disarmonica di ta-ta-tà. C’è una strategia da perseguire con tenacia:
evitare il minimo movimento, anticipare il rigore rigido della morte. Morire,
perfettamente, ad occhi aperti per meglio notare il livello di credulità negli
altri. Non essendo così semplice, vale, ed è molto meglio, garantirsi il posto
buono, senza esporsi troppo.
Continua...
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