PORCO. - (#4 parte)




di Luigi Furno

( - piccola premessa - Porco. è un racconto proposto a puntate, a frammenti. Qui siamo alla quarta parte. In esso si presenta la fuga e la speranza del capitano Hoppiter, la bestialità di un porco e l’indecenza dell’io. In Porco. il pensiero è essiccato, demidollizzato. In esso, il “pensare” equivale a parlare senza sapere in che lingua si parli, quale retorica si usi, senza avere la più pallida idea del significato che la forma del suo linguaggio e della sua retorica sostituisce a quella su cui il “pensiero” vorrebbe decidere. Non ha forma. La poesia ha una forma; il romanzo ha una forma. Il Porco. è uno specchio che ci deforma. Il porco è un mistero che per noi può, in pieno giorno, apparire qualcosa che non sia giorno, qualcosa che in un’atmosfera di limpida luce rappresenti il brivido di terrore da cui il giorno è nato. Una bella follia: parlare. Grazie a questo, l’uomo danza su tutte le cose e al di sopra di esse. Buona lettura).



- Hai visto spesso questi tipi di combattimenti nei dormiveglia? – mi chiese mentre mi leccava un orecchio con la sua lunga lingua umidiccia.

“Anche senza dormire”, risposi, “senza neanche pensarci. Ti devi fermare e aspettare: aspettare quello che risponderanno. Parlo in termini di fuoco di risposta – tu mi intendi? È che si sta troppo fermi; la morte ronza come un tornado e tu fermo, immobile: vivo in mezzo a tutto; morto in mezzo a niente. La morte? È una cosa secondaria, qui sono molluscoli di piombo, affilati come aghi ipodermici, che flirtavano con la pelle, altrove granate, bombe, siluri, coltelli, forconi.

Come che fosse, non si poteva avere altri lati. Si è vulnerabili a trecentosessantacinque gradi, ogni centimetro del proprio corpo è un banco di prova. Adesso non resta che gridare odio, se si vuole, e l'aria si corrompe, intrecciata di sibili di ferro metallo. Nessuno in questi momenti ha madre, non vede che la vita è soltanto violenza. Un rinculo del fucile quasi ti sloga la spalla, ma non lo senti questo dolore, non c’è tempo per provarlo. È ramo spezzato dall'albero la vita, lì, il comune pudore ha la consistenza della nebbia, il comune diffondersi di polvere a terra. Lo dico a te, conversando. È così?” – il maiale non si scompose affatto, intanto aveva preso a strofinare il suo grosso pene sulle mie gambe.


“Di fatto caricai la carabina”, continuai col dire, anche se mi accorgevo che il mio racconto non seguiva una linea logica, “puntai, in ripetizione. Da tutte le parti, a caso, ovunque un mollusco vivo dava il segno di arrendersi all’assedio.

Quegli uomini, quelli dell’altro campo, i nostri nemici, avevano una certa cura nel mangiare polvere ma, in fatto di sparare, sciupavano molte munizioni, sparavano con nervosismo. Troppi colpi in aria a fendere il cielo. Ma il cielo non si offende così. Avevano paura, questo è il fatto, non volevano morire per mano nostra, non volevano. Scoppiai a ridere a crepapelle e il capitano Hoppiter mi chiamò, spaventato. Forse credeva che fossi impazzito. Ma io stavo invece, all'improvviso, pensando a mio padre, Marzio Caporossi.

“Adesso, proprio tu mi lasci andare via! Non vuoi?” fu quello che ebbi voglia di gridare al capitano Hoppiter. Cane che era. Gli risi ancora forte, in faccia. “Uomo solo, con la carabina in mano, non ha speranza”. Non avevo neanche fatto la domanda, ma lui aveva la risposta. Hoppiter era uno come me, non timorava, uguale, uguale, anzi tirava peggio. E quegli uomini del diciassettesimo, difronte a noi, si erano svegliati presto per prendersi delle schioppettate da noi. Mi controllai.

“...Se tutti questi idioti mettono mano alle armi e spariamo tutti in cerchio, gli uni contro gli altri, sai cosa diventiamo?” Era la tiritera che il Capitano ripeteva, impietrito coi denti stretti. “Sai cosa diventiamo? ...CO-LA-PA-STA. E allora il mondo finisce?”

Erano solo minuzie, che mi navigavano sotto coperta, nella mente. Ho iniziato a contare i tiri. Quello, come stava, era cosa senza termine”.

Il giorno era ormai chiaro e il maiale mi leccava le mani mentre, con le anche, dava delle leggere spinte pelviche tanto che riuscivo a sentire i suoi grossi testicoli gonfi. Il suo su e giù quasi riusciva ad alleviare qualche mio acciacco.

“Se vuoi ti posso descrivere intero il compagno di Monte Chiaro”, cercando di distrarlo, “stava dietro un ceppo d'albero e cespugli spinosi di more. Cacava, ed è morto senza potersi neanche pulire il culo.
Ma perché racconto tutto questo proprio ad un maiale? Vado lontano. Se un porco ha già visto di questa roba, se ha già visto il coltellaccio che gli taglierà la gola, sa cos'è; se non lo sai, come puoi arrivare a saperlo? Sono cose che non entrano, facilmente, nel terreno del farne un'idea.

Un combattimento e tanto, troppo, è combattimento grande. Su questi sassi e polvere la gente non striscia cambiando di posto, non è il caso se non vuoi trovarti scuoiato come un coniglio. Ma sei costretto, avvolte, quando si attacca una difesa quello si deve fare: perché pensino che si va in numero maggiore del vero. Allora, strisci come un verme e la terra ti entra in bocca. Provi a sputarla, ma lei ti si appiccica alle gengive e i sassi, aguzzi come schegge di vetro, ti entrano negli incavi della carne martoriando, forte, i nervi. Strisci, per sparire, così radente alla terra che, quasi, vorresti nasconderti nel suo ventre, ma questa terra è infame, ti rifiuta, e ti tiene in superficie alla vista di tutti… nella mira del nemico. Bisogna respirare lento, per non farsi sentire neanche dalle proprie orecchie, di notte, di giorno, nelle ore più assurde, dagli interstizi delle proprie armature di misero panno, devono uscire soltanto fragili bollicine d’aria che con infiniti gluglu risalgono verso il cielo, per salvarsi, almeno loro. Non ti feliciti mai di essere finalmente riuscito, un giorno, a spezzare, fare a brandelli, il proprio straordinario involucro di panno; anzi, questa divisa ti sostiene, ti rende felice del fatto opposto, di essere cioè riuscito a infagottarsi sempre più pesantemente, ad ingusciarsi sempre meglio, a sovraccaricarsi d’altri schiaccianti apporti di protezione… e di conservare ancora, malgrado questo, nel fondo delle proprie tenebre, una possibilità di gracili gesticolamenti… artifizi scherzosi, astuzie affettate, reticenze equivoche, insomma, centrare in fronte il nemico senza esserne mai colpito. Non riesci neanche più a parlare; e non è poi tanto male, quel poco di silenzio in quel frastuono. Una grancassa disarmonica di ta-ta-tà. C’è una strategia da perseguire con tenacia: evitare il minimo movimento, anticipare il rigore rigido della morte. Morire, perfettamente, ad occhi aperti per meglio notare il livello di credulità negli altri. Non essendo così semplice, vale, ed è molto meglio, garantirsi il posto buono, senza esporsi troppo.

Ancora una spudorata fantasia, un credo per teste avvinazzate, una sporta infinita d’infamia”.


Continua...

leggi qui (1# parte), (2# parte) (3# parte)
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