di Luigi Furno
“Beffarsi della filosofia è
filosofare davvero”. Questo diceva Pascal. .furiaLuigi ci proverà.
Qualche giorno fa, .furiaUrsula
ha pubblicato su .furiaLAB alcune sue riflessione sul pensiero heideggeriano
rispetto allo “spazio” (vedi qui). Adesso, .furiaLuigi vuole riflettere sul pensiero
heideggeriano rispetto allo “strazio”.
Iniziamo con la domanda che è
stata volutamente messa a margine da tutti i “riflessionisti” di professione sul
filosofare del professor Heidegger.
“Perché il più grande pensatore
del secolo scorso, Heidegger, è rimasto coinvolto personalmente nel movimento
più aberrante della storia dell’umanità, il nazismo?”.
Pensare che possa essere questa
la domanda è fare un cattivo servigio alla materia grigia che anima le meningi
di .furiaLAB.
La vera domanda che possa
riuscire a sabotare l’heideggerismo è: “Perché il più grande pensatore del
secolo scorso, Heidegger, non è riuscito a immaginarsi un mascellodonte purgato
che, in preda a spasmi feroci, defeca tutto il suo supplizio mondano e parte
del suo esserci al mondo su una riproduzione in miniatura della Foresta Nera
mentre fa due passi avanti e due passi in dietro e, ancora, due a destra e due
a sinistra mentre urla sguaiato “oh macarena”?”
Scrivo, o almeno immagino presumo
di scrivere; per ciò non so – tanto all’incirca recitava il primo verso di un
breve poema di Alain Bosquet, Du poète,
con cui il lirico francese volle introdurre una sua raccolta nel lontano 1955 (Quel royaume oublié?). La scrittura è
infatti un avventurato percorso, che si riesce a scortare e a ordinare sino a
un certo punto: giacché si rende autonomo dal suo autore.
Heidegger non aveva automatismi
incontrollati, tutto il suo pensiero è eterodiretto dalla sua impossibilità di
pensare il mascellodonte purgato.
“Le domande sono cammini verso
una risposta” diceva lo stesso Heidegger. Esiste un fiume la cui risposta porta
alla dannazione, il suo nome e Ade; la speranza, però, è che da qualche altra
parte ci sia un altro fiume che riesca a placcarla.
“Hai ucciso il
mascellodonte? Vieni tra le mie braccia mio radioso fanciullo. O giorno
favoloso! Evviva, evviva!”. Un lamento funebre o una gioia infinita. In tutti i
segni, opposti o divergenti, si piange o si festeggia alla mezza morta, alla
quasi viva, all’ecatombe, alla primavera… in ogni modo alla Filosofia, alla
baldracca.
Il Novecento ha messo a morte tutto, sé stesso
in primis. “Ho ucciso tutto. Dio, la Storia, l’Uomo, l’Arte, il Teatro, il
Soggetto, l’Oggetto, il Predicato, l’Avverbio, l’acqua potabile e i sopramobili
in porcellana”. Questo va vendendo per le strade del mondo, il Novecento.
Secolo di un risorgimento in quanto secolo dell’alba dei morti viventi. Secolo
distruttivo, della liquidazione. Una sciocchezza nell’abisso, un Ōkeanós dai
«gorghi profondi». È stato il fiume magnum che ha strangolato i cardini vitali
scorrendo intorno alla storia. Ma l’ecatombe è stata effimera.
Tutti i falcidiati del suo
massaggio, sono moribondi. Neanche un morto. Per strada nessun gonfiore, nessun
lividore, nessun rigor mortis, nessuna cadaverina. Solo sciancati a chiedere
l’elemosina. Lapidario… la Filosofia non è morta, è moribonda. Solo un pensiero
eugenetico negativo la tiene in vita, la accademizza. L’Accademia? Dove le idee
periscono musealizzate. L’allusione della morte, la sciancaggine filosofica, la
rende preziosa e patetica. Questa commuove per la sua condizione di fantasma;
ogni atto che compie appare come l’ultimo, non c’è suo dire che non sia sul
punto di cancellarsi come il volto di un sogno. Nulla può accadere una sola
volta. La ripetizione presuppone una identità tautologica di essere e accadere.
Ad ogni accadere della sua morte, la Filosofia riafferma il suo essere
moribonda.
Il mascellodonte smette di
ballare e cacare, e grida: “Sono qui nella mia contraddizione, pubblica ed esistenziale,
nel mio essere giano bifronte, tra la mia pulsione nell‘essere cantore della
fine della Filosofia e nell’essere, mio malgrado, cialtrone di filosofia”. In
sostanza, maestro di un morto. Senza ambizione di essere maestro di morte.
“Nella misura in cui si tenta ancora il
pensiero filosofico, esso non può ormai che metter capo a un gioco di rinascite
epigonali”. L’ambizione filosofica dopo e secondo Heidegger è un’ambizione da
epigono. La Filosofia ha esaurito la sua lingua, l’ha terminata, compiendosi
profondamente. “La filosofia è metafisica… Ogni metafisica unitamente al suo
antagonista, il positivismo, parla la lingua di Platone. La parola fondamentale
del suo pensiero, cioè dell’esposizione dell’essere dell’essente suona eidos,
idea: l’aspetto in cui l’essente si mostra come tale. L’aspetto dunque è una
modalità della presenza. Nessun aspetto senza luce – lo sapeva già Platone… La
fine della filosofia è quel “luogo” in cui la totalità della sua storia si
raccoglie nella sua estrema possibilità. Fine come compimento significa questo
raccoglimento.
Attraverso tutta la storia della
filosofia il pensiero di Platone resta, in forme diverse, determinante. La
filosofia è platonismo. Nietzsche definisce la sua filosofia come platonismo
rovesciato. Con il rovesciamento della metafisica, che è già attuato con Karl
Marx, è raggiunta la possibilità estrema della filosofia. Essa è giunta alla
sua fine”.
“Il diramarsi della filosofia
nelle scienze autonome, in modo sempre più decisivo intercomunicanti, è il
legittimo compimento della filosofia. La filosofia finisce (endet) nell’epoca
presente. Essa ha trovato il suo luogo (Ort) nella scientificità dell’agire
sociale dell’uomo”.
“Le categorie alle quali ogni
scienza resta assoggettata per la strutturazione e la delimitazione del suo
ambito di oggetti, la scienza le intende strumentalmente come ipotesi di
lavoro. Non solo la loro verità viene misurata sulla base dell’effetto che
produce la loro applicazione all’interno del progresso della ricerca, ma la
verità scientifica stessa è posta come equivalente all’efficacia di questa
effettività.
Quello che la filosofia nel corso
della sua storia aveva talvolta tentato, e anche in questi casi solo
insufficientemente, vale a dire esporre le ontologie delle diverse regioni
dell’essente (natura, storia, diritto, arte), ora sono le scienze ad
assumerselo come proprio compito”.
Secondo Hedegger, seguito dagli
epigoni, la Filosofia ha perso il suo senso perché ha raggiunto il suo
possibile. Oggi la Filosofia è solo un mestiere professionale, una carriera
accademica, un tirare a campare, solo maestranza del pensiero. Ill suo
domandare non ha referenze col reale. La Filosofia è superata dal pensiero
tecno-scentifico. Morto Platone, la Filosofia non è più “una battaglia di
giganti intorno all’essere”, è una battaglia di piccoli uomini intorno alla
pagnotta.
Heidegger cerca una risposta.
Separa la Filosofia dal pensiero e cerca una possibilità di sopravvivenza per
quest’ultimo. Heidegger fa del pensiero un fatto di “luce” come l’ENEL.
“La radura nella foresta
(WaldiLichtung) è esperita nel contrasto con la foresta là dove è fitta, detta
nella lingua tedesca più antica Dickung (il fitto della foresta). Il sostantivo
Lichtung, radura, deriva dal verbo lichten, diradare. Diradare qualcosa significa:
rendere qualcosa facile, aperto e libero, per esempio liberare la foresta in un
luogo dagli alberi. Lo spazio libero che così sorge è la radura, Lichtung. Das
Lichte, cioè che è facile nel senso di libero e aperto non ha né
linguisticamente né quanto alla cosa di cui si parla niente in comune con
l’aggettivo licht, che significa hell, chiaro, luminoso. Nondimeno resta la
possibilità di una connessione oggettiva tra di esse. La luce può appunto
cadere nella radura, nel suo aperto, e in essa lasciar giocare la luminosità
con l’oscurità. Ma giammai è la luce che crea originariamente la radura; invece
è quella, la luce, che presuppone questa, la radura. La radura (l’aperto) è
libera non solo per la luminosità e l’oscurità, ma anche per l’eco e per il suo
spegnersi, per ogni suono e per il suo svanire. La Lichtung, la radura, è
l’Aperto per tutto ciò che è presente e tutto ciò che è assente”.
Se fosse così, allora, celato in
tutta la storia della filosofia, dal suo inizio alla sua fine, dovrebbe essere
ancora riservato al pensiero un suo compito che non era accessibile né alla
filosofia in quanto metafisica, né, vieppiù, alle scienze, che da essa
derivano.
Conformemente a ciò, il pensiero
potrebbe forse un giorno non indietreggiare davanti alla domanda se la
Lichtung, l’Aperto che libera, non sia ciò in cui soltanto lo spazio puro e il
tempo estatico, e tutto ciò che in essi è presente ed assente, trovano il luogo
che tutto raccoglie e racchiude.
Allo stesso modo del pensiero
dialettico-speculativo, l’intuizione originaria e la sua evidenza restano
assegnate all’apertura che già vige, alla Lichtung. L’evidente è
l’immediatamente visibile.
Questo è il pensiero di Heidegger
intorno al tema della fine della Filosofia. In sostanza, la Filosofia finisce perché
il platonismo ha straripato gli argini del puro pensiero speculativo ed è
diventato materialità, funzionalità, esistenza tourt court. Il pensiero
tecno-scentifico ne ha preso lo scettro liquidandone la sua ragion d’essere.
Nietzsche è il problema della
tesi heideggeriana. Ne è consapevole lui stesso e tutta la tradizione
filosofica del Novecento.
La filosofia di Nietzsche può
essere considerata come l’ultima parola del platonismo, nel doppio senso che si
può assegnare a quest’ultimità: essa è insieme consumazione e inversione del
platonismo medesimo. Se il platonismo è divenuto schematismo dell’intero mondo
occidentale, la filosofia di Nietzsche può essere interpretata come “inversione
del platonismo”.
Heidegger ha coscienza di questo,
tanto da identificare Nietzsche come esponente ultimo della tradizione
metafisica e platonica. Colui che inverte le carte in gioco riaffermando quello
che si aveva in mente di distruggere.
Infatti, se il platonismo fosse
identificato come puro errore nella forma del non vero, cioè del falso, ci si
troverebbe, ancora una volta, implicati nella presunzione di verità
(platonismo), ossia nella coppia concettuale vero-falso.
Nietzsche sfugge
all’inconveniente perché si pone fuori dall’opposizione vero-falso a vantaggio
di quella della polisemia ermeneutica della storia. Il suo metodo è la
genealogia.
La genealogia identifica
l’errore, è, cioè, capace di dissolvere qualsiasi concetto nella sua genesi. Un
qualsiasi concetto prima ancora di essere vero o falso è storico: è poi vero o
falso a seconda dei parametri relazionali che lo limitano. L’errore,
considerato secondo questa prospettiva, risulta un evento stratificato e
complesso, che va compreso a partire dalle dinamiche dei suoi effetti.
Da un punto di vista genealogico,
non è tanto l’adeguazione tra la forma ideale e il supposto riferimento reale a
dar conto della verità (visione metafisica), ma la verità coincide con il campo
di effettualità dell’idea stessa. Questo quadro metodologico apre il campo
ermeneutico su cosa sia l’inversione del platonismo. Nietzsche non si limita a
ribaltarlo specularmene, come vorrebbe Heidegger, ma è un’analisi congetturale
delle dinamiche che hanno generato il platonismo stesso come idea della
separazione.
La filosofia di Nietzsche è un
andare a ritroso, è un sapere archeologico e, se si vuole psicoanalitico:
esiste un inconscio del platonismo da portare alla luce. Il pensiero nicciano è
il conflitto delle interpretazioni: ermeneutica.
Questo conflitto è storico e
ideale insieme e perciò “filosofico”.
La filosofia non muore con
Nietzsche in quanto non è l’atto ultimo del platonismo, il suo guardarsi allo
specchio. Con Nietzsche si apre il senso multiforme e si finisce con l’epica
dell’ideale.
La filosofia non è platonismo. La
filosofia non è metafisica. Il pensiero scientifico lo è, e ha sicuramente
rubato molti punti di riflessione alla filosofia. La Scienza non è genealogica,
lessicologica, decostruzionista, ermeneutica ecc… in sostanza, non è contemporanea
o lo è sole nel meticciato: nella Teoria del Caos nella Complessità.
La filosofia è finita solo se la
si intendere come “discorso sulle essere dell’essente in quanto è nel suo
pernicioso attraversamento della transfericità dei componenti ultrasensibili
ecc…”. Questo, oltre ad essere una supercazzola, è misticismo, è atto di fede.
Se non si è nell’oltrepassamento delle morali si è con Platone.
Heidegger non pensa mai al
mascellodonte purgato, perché?
Se la filosofia non esaurisce,
come sarebbe cosa giusta pensare, la sua natura esistenziale nella pura
interrogazione astratta degli immutabili universali (schematismo platonico) ma
è anche gioco di parole, e quindi gioco linguistico, non si capisce per quale
motivo, heideggerismo a parte, si dovrebbe smettere di giocare. Che forse
mancano le parole? Non ci sono abbastanza possibilità combinatorie per le
parole? Qualche stolto crede che abbiamo esaurito la logica combinatoria?
Perché smettere? I bambini non
smettono di giocare solo perché il pallone si è bucato. Non smettono di vedere
il mascellodonte. “Vuoi vedere cosa non vista da occhi umani? Guarda la luna.
Vuoi udire cosa non udita da orecchio? Ascolta il grido dell’uccello. Vuoi
toccare cosa non toccata da mano? Tocca la terra. In verità io dico che dio
deve ancora inventare il mondo”.
Alterando una frase di Derrida:
Il piacere della fine, a volte, è simile a quello della defecazione.
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