Una poesia di Emilio Villa


LINGUISTICA


Non c’è più origini. Né.              Né si può sapere se.
Se furono le origini e nemmeno.
E nemmeno c’è ragione che nascano
le origini.                                      Né più
la fede,                                          idolo di Amorgos!
chi dici origina le origini nel tocco nell’accento
nel sogno mortale del necessario?
No, non c’è più origini.                                        No.
Ma
il transito provocato delle idee antiche – e degli impulsi.
E qualsivoglia ambiguo che germogli intatto
dalle relazioni
dalle traiettorie
dalle radiazioni
dalle concezioni
luogo senza storie.
Luogo dove tutti.
E dove la coscienza.
E dove il dove.
Per riconoscere l’incommensurabile semenza delle vertigini adombrate
le giunture schioccate nei legami
la trasparenza delle cartilagini
il cieco sgomento dei fogliami
agricoli nelle forze
esteriori, e l’analisi fonda
incisa nel corpo dell’accento.
No.
Non c’è più. Né origine nei rami.                 né non origini.
Chi arrestava i sintagmi sazi nel sortilegio della consistenza
usava lo spirito senza rimedio nel momento indecisivo
come un compasso disadatto, non esperto, così non si poteva
agire più niente, più, ombra ferita e riferita, proiezione,
senza essenza, così che speculare sul comune tedio
un gioco parve, e ogni attimo-fonema
ancora oggigiorno sfiora guerra e tempo consumato, e il peso
corrompe dell’ombra dei tramiti dell’essenza.
E codesta sarebbe.                      Questa la fine concepibile:
se attraverso l’idea massima del pericolo e dell’indistinto
si curva l’anima estrema nell’attrito di idrogeno e ozono e i giorni
acerbi sommano giorni ai giorni quotidiani nell’araldica
prosodia                                                            delle tangenze,
soffocando ogni flusso di infallibile irrealtà in:
i verbi
i neologismi.
Chi le braccia levava saziate di viole nel palpito assortito
oggi paragona ogni rovina paragona allo spirito
immune che popola e corruga a segmenti il nembo
delle testimonianze storiche, delle parabole nel grembo
confuso delle parrocchie e nelle larghe zone
di caccia e pesca e d’altre energiche mansioni culturali.
E non per questo celebro coscientemente il germe
sepolto, al di là,
e celebro l’etimo corroso dalle iridi foniche,
l’etimo immaturo,
l’etimo colto,
l’etimo negli spazi avariati,
nei minimi intervalli,
nelle congiunzioni,
l’etimo della solitudine posseduta,
l’etimo nella sete
e nella sete idonea alle fossili rocce illuminate
dalle fosforescenze idumee, idolo di Amorgos!
[da E ma dopo, Argo, Roma 1950]

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