L’artista inverte il corso del tempo




“L’artista non imita nulla, non crea nulla: ritrova qualcosa nel passato. Noi siamo sazi di questo mondo di forme, di colori, di individui, ne siamo oppressi, disincantati: l’arte non assomiglia a nulla di questo mondo. L’artista inverte il corso del tempo, scoprendo da quale passato è nato questo presente, suscitando, facendo riemergere quel passato. Ma il tempo invertito, il tempo artistico non è guidato dalla necessità, è bizzarro, imprevedibile. Quel passato sorge da un altro passato, però senza un nesso di continuità. E la falsa vivezza dell’esistenza abituale, presente, non può essere prodotta dall'artista: è il filo della necessità, da lui ripudiato, che la produce. Il falso distacco dell’esistenza artistica, per contro, è un ricupero delle rappresentazioni nascenti che agglutinandosi fanno l’individuo. Nel loro isolamento esse sfuggono a ogni apprensione discorsiva, cosciente, che è condizionata dall’individuazione. Ma l’artista le ritrova in modo miracoloso: esse sono il materiale onde si costituisce ogni individuo, quindi il loro ricupero è possibile per chi sappia regredire a sufficienza nel reticolo rappresentativo. Còlta nel suo isolamento, la rappresentazione nascente è indiretta, lontana, solo in quanto avulsa dal contesto della vita attuale, apparentemente immediata, che è invece il dominio dell'astrazione: dunque è falsamente remota, e al contrario, nella sua prossimità alla radice della vera immediatezza, è concreta in modo incandescente.

Questo è il cammino dell’artista, da una rappresentazione nascente a un’altra, secondo la traccia del tempo invertito, in direzione dell’immediato. E se ha senso dire che il nostro mondo, l’apparenza, è uno scadimento dal fondo nascosto dell’immediatezza, onde sgorga, sarà lecito analogamente dire che il cammino rappresentativo seguìto dall’artista si muove verso una sfera di eccellenza, di adeguatezza alla fonte della vita. Ma quelle rappresentazioni nascenti, raggiunte dall’artista, non si ritrovano nella coscienza quotidiana dell’uomo, per la loro natura archetipica, ossia non fanno parte del nostro campo di immagini, colori, forme. L’artista le traduce allora in oggetti di questo mondo, anche se esse a noi già appartenevano, ma ancora non erano state ritrovate e afferrate. Questa traduzione materiale dell’artista segna l’abbandono del suo cammino di allontanamento, del suo tentativo di invertire il corso del mondo: quando realizza la sua opera, l’artista si rimette nell'alveo del grande flusso espressivo del mondo, e segue la tendenza verso l’astratto.

L’arte ricupera dunque una prospettiva che precede quella dell’individuazione. Chi riesce a tagliare il tessuto della necessità, a demolire gli edifici di parole e sgretolare la falsa corposità del mondo, corre il rischio di venir sommerso dalla violenza che si erge alle spalle della necessità debellata: nel rapprendersi dell'individuo la violenza si manifesta come interiorità, come sensazione o sentimento del dolore. Qui fa naufragio chi non è artista, chi non sa spingere oltre, piegando l’angoscia, il filo retrocedente della memoria. Ma la violenza come dolore è condizionata da quelle rappresentazioni nascenti, che precedono la sfera dell’individuo. Chi va oltre trova la violenza mescolata al giuoco. Quelle rappresentazioni primarie sono ricordi dell’immediato, sono attimi, dove cadono tutte le condizioni astratte.”

GIORGIO COLLI (1917 – 1979), “Dopo Nietzsche”, Bompiani, Milano 1978 (ed. su licenza temporanea delle Edizioni Adelphi 1974, I ed.) ‘Arte è ascetismo’, ‘Un cammino a ritroso’, pp. 113 – 115.

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