Le cure domestiche di Marilynne Robinson


di Luigi Furno

Di Marilynne Robinson, unanimemente considerata una delle maggiori scrittrici americane viventi, premiatissima per i tre romanzi della trilogia formata da Gilead (2008), Casa (2011) e Lila (2015), Einaudi pubblica il romanzo d’esordio, Le cure domestiche, nella ottima traduzione di Delfina Vezzoli, uscito negli Stati Uniti la bellezza di 25 anni fa. 

Il romanzo, che nell'insistenza dell'io narrante iper-riflessivo lo avvicina ad un romanzo a chiave, è una vicenda al femminile guidata da una poetica del plein air e tutta sapientemente giocata sull'alternanza biblica tra tenebre e luce che resiste ai marosi del tempo e non finisce di stupire.

Housekeeping, questo il titolo originale del romanzo, è un autentico gioiello della letteratura contemporanea, il «romanzo perfetto», estraneo alla ricerca del successo a tutti i costi. L’ha scritto a quasi quarant’anni, per il puro piacere di scriverlo, redigendolo interamente a mano – era sprovvista di computer e il continuo picchiettio dei tasti della macchina da scrivere, ha confidato in un’intervista, l’avrebbe sicuramente distratta. Le è valso il P.E.N./Ernest Hemingway Foundation Award per la migliore opera prima e il Richard and Hinda Rosenthal Award, conferitole dall’American Academy and Institute of Arts and Letters, mentre il regista scozzese Bill Forsyth, estremamente rispettoso della sua intima sostanza, nel 1987 l’ha trasposto con buoni esiti al cinema, conquistando il premio per la migliore sceneggiatura al Festival Internazionale di Tokyo.


Marilynne Robinson è nata nel 1943 a Sandpoint, nell’Idaho. Vive da anni nello Iowa, dove insegna scrittura creativa. Ha vinto il Pulitzer nel 2005 grazie a Gileadma è dal settembre del 2015 che la sua fama ha superato la cerchia neanche così ristretta di chi ama la letteratura.

Il merito è di Barack Obama. È successo che il presidente degli Stati Uniti ha intervistato la sua scrittrice preferita per la New York Review of Books. Obama aveva letto Gilead durante i tempi morti di una lontana campagna elettorale, spostandosi da una città all’altra. Era rimasto stupefatto dalla bellezza del romanzo, tanto da voler incontrare la sua autrice. Cosa che è riuscito a fare anni dopo.

“La mia scuola era davvero piccola. Una scuola molto per bene, ma io mi annoiavo. Poi un bel giorno scoprii la biblioteca. Lì cambiò tutto. Mi ritrovai per le mani Moby Dick, e i libri di Charles Dickens…”

Come in Moby-Dick (il romanzo di Melville sulla cui scia visionaria Marilynne Robinson vola, senza alcuna ombra di dubbio), l’elemento acqueo è fondamentale anche nelle Cure domestiche. In Moby-Dick è l’immenso oceano che avvolge la terra: l’Atlantico grigio e scuro, il tempestoso Oceano Indiano, gli impenetrabili mari dell’Estremo Oriente con quelle isole dalle quali arrivano alle fiancate delle baleniere i profumi dolci e snervanti della giungla, e il divino, misterioso Pacifico, simile a un gigantesco quanto sereno cuore pulsante, nel quale con ogni probabilità nuota la balena bianca che Ahab insegue con la fronte aggrondata, le labbra strette in una morsa. Nel romanzo della Robinson è un lago anonimo, cupo, del Midwest degli Stati Uniti, sulle rive del quale sorge l’altrettanto anonima cittadina di Fingerbone. Un lago quasi di superficie, che al suo centro ha un altro lago più antico, primordiale, che potremmo definire «in sonno», e che però di tanto in tanto ha un soprassalto, una sorta di risveglio: come se i morti affogati che giacciono nel suo fondo, avessero un estremo desiderio di vita, di risorgere da quella tenebra acquosa, per una «rinascita finale».



In questi momenti, sempre assai misteriosi, ingiustificabili dalle leggi della natura, forse solo giustificabili dall’incontro del sogno e del pensiero, il lago esonda. Lentamente, straripa oltre le sue rive brulle; sfiora il ponte che lo attraversa, sopra il quale a cadenze regolari passano i treni passeggeri e i lunghi treni merci che vanno dall’una all’altra costa del continente americano; invade le cantine; penetra nei piani bassi delle case facendo galleggiare le sedie e i divani; quando si ritrae, lascia ovunque uno strato compatto di fango. Guardandolo — scrive Marylinne Robinson — «si poteva credere che il Diluvio Universale non fosse mai finito. Se uno è perso sull’acqua, qualsiasi collina è Ararat. E al di sotto è tutto il passato che si è andato accumulando, che svanisce e non svanisce, che perisce e che rimane».

Quando il romanzo comincia, a contemplarlo, seduta in macchina dall’alto di un dirupo, prima di spingere l’acceleratore e precipitarvi dentro, è Helen, una giovane donna tornata a Fingerbone dopo molti anni di assenza. A cosa sta pensando? Probabilmente a suo padre, ferroviere, che in quel lago si è inabissato insieme a un intero treno; al marito che l’ha tradita; alla sua vita priva di ogni speranza. Nella casa della madre, sotto al portico, prima di andare a suicidarsi, ha depositato con un pacco di biscotti le sue due figlie Ruth e Lucille. Hanno, entrambe, la cosiddetta «età ingrata»: quell’età, a cavallo fra l’adolescenza e la pubertà, durante la quale le ragazze sentono il proprio corpo come un ingombro o un peso; odiano le immagini che lo specchio restituisce del loro viso, dei loro capelli mai a posto; temono di diventare troppo alte o di non crescere abbastanza; si esaminano le mani; vorrebbero strapparsi di dosso i vestiti. Ora sono sole: in una cittadina che non hanno mai visto; in una casa che non hanno mai visto; con una nonna che non hanno mai visto e presto morirà lasciandole ancora più sole. E con un lago, da esplorare, quando i ghiacci del durissimo inverno si sciolgono, che può crescere a dismisura e diventare — per chi lo contempla — come l’Oceano Pacifico sotto il quale batte il cuore dei vivi e dei defunti, come la terra al culmine del Diluvio Universale. Là sotto c’è un nonno affogato di cui hanno sentito parlare confusamente nella prima infanzia; ci sono certamente altre centinaia di anime seppellite; c’è soprattutto una donna, Helen, la madre che è sparita per sempre.



È possibile che due ragazze abbandonate a loro stesse alle soglie della «età ingrata», in un luogo sconosciuto, in una casa sconosciuta, sulle rive di un lago che ne ha inghiottito un altro e sembra voler inghiottire tutti, riescano a sopravvivere superando la «età ingrata» per fare il loro ingresso nel mondo? È possibile, come accadde all’epoca dell’Arca, che il divino si commuova, perdoni gli abitanti di Fingerbone e del Midwest, e, provando il medesimo sollievo che aprendo le finestre dell’Arca provò la moglie di Noè, le due sorelle scoprano una «mattinata destinata a riflettere una natura enormemente buona?».



ESTRATTO

«La barca era già in acqua, dondolava all’estremità di una corta cima che Sylvie aveva ormeggiato a una grossa pietra. Sylvie la tirò a riva e la orientò in modo che potessi scavalcare il bordo senza bagnarmi i piedi.

Era sera, il cielo risplendeva come un guscio d’uovo illuminato all’interno da una candela. L’acqua era di un grigio traslucido, e le onde erano alte quanto è possibile senza che si rompano. Mi sdraiai di fianco sul fondo della barca, e appoggiai le braccia e la testa sull’asse tutta scheggiata del sedile. Sylvie salí e si sistemò con un piede da una parte e uno dall’altra delle mie gambe. Si rigirò e si allontanò dalla riva con un remo, poi incominciò a piegarsi e spingere, piegarsi e spingere, con una forza che sembrava non implicare alcuna fatica. Io rimasi sdraiata come un seme nel guscio. L’acqua immensa sciabordava con colpi sordi sotto la mia testa, e io sentii che dovevamo la sopravvivenza alla nostra leggerezza, che danzavamo tra rovinose correnti come fanno le foglie secche, e che non venivamo capovolte perché il relitto che ci portava era destinato a cose piú grandi.

Mi trastullavo con il pensiero che potevamo capovolgerci. Era nell’ordine di questo mondo, dopo tutto, che l’acqua penetrasse attraverso le fessure dei gusci, che, per quanto compatti e impermeabili possano essere, sono fatti soltanto per fendersi. Era nell’ordine delle cose del mondo che il guscio cedesse e che io, il germe intorpidito e dormiente, mi gonfiassi e mi espandessi. Mettiamo che l’acqua sormontasse i bordi della barca, e io mi gonfiassi sempre piú fino a squarciare il cappotto di Sylvie. Mettiamo che l’acqua e io insieme trascinassimo sul fondo la barca a remi, e io, miracolosamente, mostruosamente, bevessi acqua da tutti i pori, fino a che l’ultimo buchino nero del mio cervello non fosse che un rivoletto, un gocciolio. E dato che è nella natura dell’acqua riempire e costringere le cose a colmarsi e scoppiare, il mio cranio si gonfierebbe fino all’assurdo e la mia schiena si inarcherebbe contro il cielo e la mia stessa enormità mi premerebbe la guancia con forza contro il ginocchio. Poi, presumibilmente, arriverebbe il parto in qualche forma, ma la mia prima nascita si era meritata a malapena quel nome, quindi perché avrei dovuto sperare di piú da una seconda? L’unica vera nascita sarebbe una nascita finale, che ci liberasse da una tenebra acquosa e dal pensiero della tenebra acquosa, ma è immaginabile una nascita simile? Cos’è il pensiero, dopo tutto, cos’è il sogno, se non nuotare e galleggiare, e le immagini del nuotare e del galleggiare che ne scaturiscono? Le immagini sono la parte peggiore. Sarebbe terribile stare fuori al buio a osservare una donna in una stanza illuminata che studia la sua faccia alla finestra, e tirarle una pietra, rompendo il vetro, e poi guardare il vetro che si ricompone intatto e i lucidi pezzi di labbra e la gola e i capelli rappezzarsi, senza una sola cicatrice, per formare di nuovo quella donna indifferente e sconosciuta. Sarebbe terribile vedere uno specchio spezzato ritornare intatto per mostrare una donna sognante che si raccoglie i capelli. E qui troviamo la nostra grande affinità con l’acqua, perché, come riflessi sull’acqua, i nostri pensieri sono immuni al cambiamento indotto da un trauma, immuni alla deviazione permanente. Si prendono gioco di noi con la loro apparente leggerezza. Se fossero piú corporei, se avessero peso e occupassero spazio, affonderebbero o sarebbero trascinati via dal flusso generale. Ma essi persistono, al di fuori delle rovinose e brusche energie del mondo. Penso che il progetto di mia madre fosse proprio quello di spezzare questa lucida superficie, e inabissarsi sotto di essa dentro al nero piú puro, e invece eccola qui, ovunque si posino i miei occhi, e dietro i miei occhi, intera e in frammenti, un migliaio di immagini di un solo gesto, immagini che non si sono mai disperse, ma riemergono sempre, inevitabilmente, come una donna affogata»




Quarta di copertina

Quando le acque gelide del lago di Fingerbone si chiudono su un'altra anima, in città a occuparsi di Ruth e Lucille, le due bambine rimaste orfane, torna la giovane zia Sylvie. Sylvie indossa abitini leggeri sotto il cappotto informe, ama la luce e gli spazi aperti e viaggia per l'America sui treni merci. Sa che il miglior antidoto alla perdita è non avere e crede che la casa sia piú un luogo dell'anima che di regole e mattoni.

«Le cure domestiche è tuttora un capolavoro, un'indimenticabile dichiarazione di intenti immaginativi e letterari».
«The Guardian»

«Non è un romanzo da leggere in fretta, perché ogni sua frase è una delizia».
Doris Lessing 

Ruth e Lucille non hanno mai visto Fingerbone, la cittadina del Midwest che ha dato i natali alla loro mamma Helen, né le acque fonde e cupe del lago intorno a cui sorge. Ma quel lago, che in passato è stato teatro di un tragico e spettacolare disastro ferroviario, divenendo luogo di eterno riposo per molti abitanti della zona, pretende un grande tributo dalle loro giovani vite. Lo esige il giorno in cui Helen decide di riconsegnare le bambine alle loro origini e, dopo aver affrontato il lungo viaggio da Seattle, le deposita sul portico della casa avita con un pacco di biscotti da sgranocchiare per ingannare l'attesa; quindi, senza una parola di commiato né una riga di spiegazioni, risale in macchina e va a gettarsi nel lago. La cura delle due orfane e dei loro cuori attoniti passa da quel momento nelle mani di parenti sconosciuti, mani ora tenere ed efficienti, ora timide e inette, fino alle lunghe mani ossute della sorella minore di Helen, Sylvie, mani nude e perennemente screpolate, mani che sanno carezzare ma non trattenere. Sylvie porta scarpette leggere in pieno inverno e una banconota da venti dollari spillata sotto il bavero del cappotto. Ama la luce e la natura, fa lunghe passeggiate senza orari, prepara pasti frugali e non particolarmente nutrienti. Dei cani ha la paura tipica dei vagabondi. Ruth e Lucille, cosí esperte di perdite e abbandoni, sanno di non poter fare affidamento sul suo restare: «Sylvie assomigliava a nostra madre, e inoltre si toglieva di rado il cappotto e ogni storia che raccontava aveva a che fare con un treno o con una stazione degli autobus». La stessa casa di famiglia, il nucleo originario cui Sylvie ha accettato di tornare per amore delle nipoti, con la sua gestione va rapidamente in rovina: una moltitudine di gatti e sporcizia, infiniti giornali e lattine vuote, un accumulo erroneamente scambiato per l'essenza di ogni cura domestica. Di fronte al modello aereo e sradicato della zia, le due sorelle, fino a quel momento una sola anima scagliata nel mondo, devono interrogarsi sul senso dell'appartenenza e del ritorno, venire a patti con la solitudine, e scegliere la loro idea - reale, metaforica e universale - di casa. Questi temi, dunque, variamente e luminosamente esplorati nella piú recente trilogia - Gilead, Casa e Lila - sono già al centro del romanzo che alla sua pubblicazione negli Stati Uniti, nel 1980, ha immediatamente consacrato Marilynne Robinson alla grande letteratura del mondo e, grazie alla sua sola dirompenza, ha saputo conservarle quella posizione per i quasi venticinque anni che l'hanno separato dalla successiva prova narrativa.






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