Aperitivo d'arte con degustazione del disgusto


A furia di seminare si impara che la semiotica è come raccogliere cicorie

di Luigi Furno


L’arte contemporanea dovrebbe disgustarci o degustarci? Cioè, non volendo ciondolare come cani bavosi al suo seguito, cosa dovrebbe fare di noi l’arte contemporanea, allietarci o digerirci?

Sarebbe una questione di comodo provare a dare una risposta univoca.

L’Arte nella sua declinazione contemporanea non esige il dirime dubbi perché è consapevole del fraintendimento dei linguaggi. “L’arte declina un paradigma incompiuto. Differisce dagli altri strumenti con i quali l’uomo si misura con il mondo, per la radicale ritrosia a mostrare la sua funzione”. Per tale ragione, l’opera resiste a qualsiasi forma di traduzione irrigidita, “spostando la sua estensione sulla superficie dell’indeterminatezza, ove risiede la lettura sfuggente che condanna il lettore a rinviare la ricerca del senso”.

Nel definire le regole del gusto, Hume scriveva che il nostro senso della bellezza può essere paragonato alla paura della morte o all'amore per la vita, dal momento che può sì farci "desiderare una porzione amara", ma non potrà mai "rendere quella porzione gradevole per il senso, o i cibi sgradevoli, se non lo erano antecedentemente a questa prospettiva". Hume allude così alle questioni filosofiche che sottostanno al rapporto fra gusto, disgusto e alimentazione, mostrando come questa interazione abbia a che fare con i principali temi dell'estetica: la bellezza, la conoscenza, la vita, la sensorialità e la dimensione del sentimento. Il problema sollevato da Hume è anzitutto dovuto alla polisemanticità e alla complessità del concetto di gusto, che sta fra il corporeo e il giudizio filosofico, talvolta anche conoscitivo. In sostanza, nel campo dell'estetica, riesce impossibile sfuggire all'idea di 
Maurice Merleau-Ponty di una fenomenologia del corporeo. Il corpo è una fabbrica di escrementi e la sua attività è disgustosa.

Questo è un esercizio semiotico ed euristico decisamente abissale, infinito. Difronte ad un'opera d'arte, quando la sua estraneità al corpo percettivo raggiunge l’acme, bisogna vivere pienamente la sensazione di disgusto che percorre le corde vive delle membra.



Disgustarci è un punto di incisione perché è fisiologico, e quindi chirurgico. Sappiamo che la chirurgia, se fatta per bene, è il male per il bene. Le opere che perseguono perentoriamente una estetica di aderenza alla materialità del “contemporaneo sono “disgustose” nel loro essere cuneo e marginalità. Disgustose in quanto sovvertitici della logica del “degustare” con l’arte e con un arte. Questa è la loro marginalità dal gusto; limite scandagliante e analitico sul confronto tra opera e osservatore. Limite indecisivo, cioè che non si fa decidere ne sa decidere, perché svuotato del senso di volontà. Uno sguardo innocente e non indicatore, difronte ad un’opera, non cerca niente – perché niente vuole e tutto cerca. Contraddizione infima irriducibile a definizioni univoche e assolute. Polisemicità e ambiguità connaturate al concetto di arte. Per questo Artaud è sempre attuale – somatico oltre il mentale. Nel “Sogno di d’Alembert”, Diderot scrive che lo stomaco “vuole”, mentre il palato “non vuole”. Disporsi frontalmente ad un’opera è atto digestivo e non degustativo. Il degustativo nell’arte è avere il palato fino, tanto fino e paraffinato da svanire nel proprio nebbiuscolo. Il palato si addestra a salivare di piacere per addolcirsi come il cane di Pavlov.

La fame di “arte” è un sentimento doloroso che parte dallo stomaco. Un’urgenza sentimentale, perché nella fame, lo stomaco si tormenta come un animale. Si contrae, si piega, non pensa che a se stesso. Le sue pieghe si sfiorano; nervi nudi agiscono contro nervi nudi e nasce il dolore della lotta. L’arte è questo scontro, guerra indecisiva, che non sa decidersi.



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