Bravo Platone!


di Luigi Furno

«Allora tutti, tranne i filosofi, sono coraggiosi perché sono vili e per timore; eppure è proprio illogico che uno sia coraggioso per timore e viltà». 

«Assolutamente».

Il terzo appuntamento del 2° Festival Filosofico del Sannio, organizzato dall’Associazione culturale filosofica “Stregati da Sophia” è stata una lectio magistralis affidata al prof. Giovanni Casertano sul tema “Si può essere coraggiosi per viltà”.

Un po’ di anni fa, era il 2010, l’allora Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, affermò: «In un contesto degradato, di diffusa illegalità, essere ragazzi e ragazze perbene richiede talvolta sacrifici e coraggio: in questi casi estremi sì, è bello che ci sia questa virtù. Ma in una democrazia rispettabile come la nostra, per essere buoni cittadini non si deve esercitare nessun atto di coraggio. Profonda è infatti negli italiani la condivisione di quel patrimonio di valori e principi che si racchiude nella Costituzione. Legge e senso dello Stato sono nostre doti naturali: il che esclude il degrado della legalità. I toni bassi sono lo spartito di sì armoniosa disposizione».

Il Presidente indubbiamente, nel suo ottimismo di speciale astoricità, mostra il suo aspetto più leibniziano di radice illuministica. Nel Candido, Voltaire fa dire a Pangloss - una sorta di caricatura di Leibniz -: “In questo migliore dei mondi possibili, tutti i fatti son connessi fra loro. Tanto è vero che se voi non foste stato scacciato a gran calci nel sedere da un bel castello, per amor di madamigella Cunegonda, se non foste capitato sotto l’Inquisizione, se non aveste corso l’America a piedi, se non aveste infilzato il Barone, se non aveste perso tutte le pecore del bel paese di Eldorado, voi ora non sareste qui a mangiar cedri canditi e pistacchi”. “Voi dite bene”, rispondeva Candido; “ma noi bisogna che lavoriamo il nostro orto”.

Napolitano cercava di coprire, sotto un cumulo di retorica, una verità raggelante ma lapalissiana. Molto probabilmente non aveva visto il terribile esperimento mostrato da un canale della televisione francese. Il documentario si intitola “Il Gioco della morte”, e mette in scena un gioco a premi in cui i candidati, per ottenere la vittoria, ricevono l’ingiunzione di infliggere all’avversario che sbaglia i quiz una scarica elettrica sempre più intensa, fino al massimo voltaggio che produce la morte.

La vittima, chiaramente, è un attore che grida per finta, ma i candidati non lo sanno. Il risultato è terrorizzante: l’81 per cento obbedisce, spostando la manopola sui 460 volt che danno la morte. Solo nove persone si fermano, udendo i primi gemiti del colpito. Sette rinunciano, poi svengono.

Un esperimento simile avvenne nel luglio 1961 all’università di Yale, guidato dallo psicologo Stanley Milgram. A ordinare gli elettroshock, allora, c’erano autorevoli biologi in camice grigio. Oggi l’autorità si fa giocosa, è una bella valletta a intimare, suadente: «Alzi il voltaggio!». Il pubblico applaude, ride. A opporsi è stato un misero 20 per cento, mentre il 35 s’oppose nel caso Milgram. Philip Zimbardo, organizzatore di test analoghi a Stanford nel 1971, racconta come nessuno di coloro che rifiutarono di infliggere i 460 volt chiese a Milgram di fermare l’esperimento, o di visitare l’urlante vittima degli elettroshock.

Diventa quasi impossibile dopo aver visto il Gioco continuare ad affermare che siamo in una democrazia rispettabile, dove la legge e la Costituzioni sono assimilate talmente da diventare parte costituente delle identità dei singoli. Quel che nell’uomo è connaturato, in dittatura come in democrazia, non è la legge ma l’abitudine a “non pensarci”, l’istinto di gregge, e in primis il conformismo. Il contesto degradato è nostro orizzonte permanente. È quello che Camus chiama l’assurdo: «il mondo non solo non ha senso ma neppure sente bisogno di senso».

Il coraggio, che Napolitano lancia come un’idea vana, è un cardine dell’esistenza ontologica dell’umano. Coraggioso è chi «si dà pensiero», chi s’interroga sul male e per ciò stesso diventa, in patria, spaesato. Paolo Flores d’Arcais in un saggio sullo scrittore della rivolta (Albert Camus filosofo del futuro, Codice ed., 2010) dice: «Venire al mondo equivale a far nascere un dover essere». In effetti sono tanti e giornalieri, gli atti di coraggio di cui si può dire: vale la pena.

Forse bisogna tornare alle fonti antiche, per ritrovare questa virtù ed quello che cerca di fare Giovanni Casertano nella sualectio magistralis.

Professore ordinario nell’Università di Napoli “Federico II” dal 1980 al 2009 , Giovanni Casertano attraverso l’analisi di una delle opere più importanti di Platone, Il Fedone, ha evidenziato cosa si intende per Coraggio nelle sue diverse declinazioni. “Il coraggio è una virtù” ha spiegato il professore, “ma ha a che vedere con la paura. Anche le fiere e i bambini possono essere coraggiosi, ma manca loro qualcosa. La virtù del coraggio è connessa a quella della giustizia. Oltre ad essere una virtù, il coraggio è una capacità, una specie di salvezza, di conservazione, per questo serve contro i detersivi dell’opinione e le carezze degli adulatori. A guardar bene, il coraggio ha a che vedere anche con la vergogna, che è indispensabile nelle battaglie che l’uomo combatte nella sua vita. Il coraggio filosofico e le illusioni. Si deve fuggire dalla prigione? La traversata della vita è sempre un rischio, perciò ci si deve costruire una zattera adatta. Non si può essere coraggiosi quando si è malati, ma bisogna trovare la moneta giusta per saper vivere e saper morire”.

Nella Repubblica, Platone spiega come il coraggio (andreia) sia necessario in ogni evenienza, estrema e non. Esso consiste nella capacità (dell’individuo, della città) di farsi un’opinione su ciò che è temibile o non lo è, e di «salvare tale opinione». L’opinione da preservare, sulla natura delle cose temibili, «è la legge e impiantarla in noi attraverso l’educazione», e il coraggio la conserva «in ogni circostanza: nel dolore, nel piacere, nel desiderio, nel timore» (429,c-d). La metafora usata da Platone è quella del colore. Immaginate una stoffa, dice: per darle un indelebile colore rosso dovrete partire dal bianco, e sapere che il colore più resistente si stinge, se viene a contatto con i detersivi delle passioni.



Il colore della democrazia è la resistenza a questo svanire di tinte, a questo loro espianto dal cuore (il cuore è la sede del coraggio). Compito dei cittadini e dei custodi della repubblica è «assorbire in sé, come una tintura, le leggi, affinché grazie all’educazione ricevuta e alla propria natura essi mantengano indelebile l’opinione sulle cose pericolose, senza permettere che la tintura sia cancellata da quei saponi così efficaci a cancellare: dal piacere, più efficace di qualsiasi soda; dal dolore, dal timore e dal desiderio, più forti di qualsiasi sapone» (430,a-b).

L'incontro, introdotto dalla Prof.ssa Carmela D’Aronzo, Presidente dell’Associazione culturale filosofica “Stregati Da Sophia”, si è arricchito di un momento esilarante quando, ad un certo punto della conferenza, è partito un applauso dalla platea fatta prettamente di giovani. Il professor Casertano, stupito per tanto entusiasmo, ha cercato di far capire che il suo l’intervento non era ancora finito: “Forse mi volete liquidare?”. “No!”, si è sbracciata la D’Aronzo, “Applaudono Platone”. Qualcuno, con quella intemperanza, supponenza, strafottenza, interesse e noia che fa dell’adolescenza un’età straordinaria, ha gridato: “Bravo Platone!”.

Anche questa è la democrazia, una speciale sortita da buffone. Kierkegaard, in Aut-Aut, afferma che l’ultimo ad apparire, alla fine del mondo, sarà il Buffone: «Accadde in un teatro, che le quinte presero fuoco. Il Buffone uscì per avvisare il pubblico. Credettero che fosse uno scherzo e applaudirono; egli ripeté l’avviso: la gente esultò ancora di più. Così mi figuro che il mondo perirà fra l’esultanza generale degli spiritosi, che crederanno si tratti di uno scherzo».

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