di Luigi Furno
( - piccola premessa - Porco. è
un racconto proposto a puntate, a frammenti. Qui siamo alla terza parte. In
esso si presenta la fuga e la speranza del capitano Hoppiter, la bestialità di
un porco e l’indecenza dell’io. In Porco. il pensiero è essiccato,
demidollizzato. In esso, il “pensare” equivale a parlare senza sapere in che
lingua si parli, quale retorica si usi, senza avere la più pallida idea del
significato che la forma del suo linguaggio e della sua retorica sostituisce a
quella su cui il “pensiero” vorrebbe decidere. Non ha forma. La poesia ha una
forma; il romanzo ha una forma. Il Porco. è uno specchio che ci deforma. Il
porco è un mistero che per noi può, in pieno giorno, apparire qualcosa che non
sia giorno, qualcosa che in un’atmosfera di limpida luce rappresenti il brivido
di terrore da cui il giorno è nato. Una bella follia: parlare. Grazie a questo,
l’uomo danza su tutte le cose e al di sopra di esse. Buona lettura).
Era un maiale rosa, con una
grande voglia nera che gli spaccava la testa come una enorme ferita di accetta.
Un abisso che gli separava le orecchie e gli inseriva in mezzo un nulla forato
in cui avrebbero risuonato in eterno tutti i suoni producibili. Non riesco a
spiegare perché, ma è apparso come un’immagine eterea. Parlava, mi annusava.
Annusava il sangue del capitano Hoppiter, che aveva formato un laghetto rosso
in un fiordo di una grossa merda stepposa.
- Conosci la strada per uscire da
questo posto?
«No!» Gli risposi.
- Neanche io; per entrambi c’è un solo
modo per uscire di qui: morire con un tatatà di una mitraglia, con lo sperma che brucia negli occhi;
morire di crepacuore in una stalla, con i morsi eccitati dei porci; morire
sgozzati, esangui, per la fame del mondo. Raccontami la tua guerra, uomo,
la mia la conosci bene.
«La guerra ci ha travolti come un
tornado, ha preso la nostra giovinezza e l’ha esaltata alla follia» – iniziai a
parlare col maiale con una naturalezza che non conoscevo, ma faceva stare
immensamente bene - . «Veniva un venticello, che muovendo sfregiava le foglie
che cadevano come parassiti dopo una battuta di napalm. Il capitano Hoppiter
amava il veleno, che gli infiammava la parte più tenebrosa della sua indole.
Voleva usarlo contro tutti i nemici che gli capitavano a tiro. Ma non avevamo
veleno in dote dall’esercito, solo vecchi moschettoni per lanciare morte a
caso, nell’aria. Erano tanti gli uomini
appostati da imbottire di quella casualità, che soltanto spiavano: ognuno aveva
il suo compito» – riflettei. «C’erano colpi che ti ronzavano fin dietro le
orecchie, e qualcuno li prendeva per gioco. Qualche altro, ci doveva essere,
che con un lapis e un foglio di carta appuntava i nomi di tutti quelli che
avevano osato troppo giocare, e ora, rovinavano a terra con le otturazione dei
denti che saltavano e, ingoiate come olive, riempivano lo stomaco di ruggine e
succhi gastrici inaciditi oltre misura. Ogni macellazione, anche quella
all’aria aperta, fatta di viscidume e colpi alle spalle, possiede un suo
contabile, un repertista statistico che annota i puntigli e le occasioni
mancate. Lo scopo di tutto questo gioco di ruoli, la guerra, è evitare, fosse
anche per sbaglio, che qualche contabile qualsiasi annoti le tue iniziali su
quel foglio».
L’odore strinante dei maiali e la
vicinanza del capitano morto che faceva da contraltare alla vividezza di questo
maiale, in quel momento lo trovai addirittura bello.
Era già l’ora.
Gli uccelli vanno volando, si
contentano della più piccola fessura di luce, solo per il loro andare in cerca
di cibo.
Guardai attraverso le fessure di
luce della porcilaia, vicino, cercai dove erano appostati quelli: in mezzo a
degli alberi bassi, c'erano tre fascine di legno di olmo, e una forma
scheletrica d'uomo, controluce. Si apprestava, credo, ad accendere un fuoco. Ad
un tratto apparvero le sagome di altri, che si muovevano.
«Ci siamo infilati qua dentro»,
continuai col dire, «per sfuggire ai colpi, mi sembra un buon posto».
Di lì a poco, in qualsiasi
momento, qualcuno potevano venire scendendo, a prende acqua nella vasca che
serviva a far bere le bestie nella porcilaia.
«Ho sognato un mare di scemenze
in questo posto: credi che abbiano consumato molta acqua?»
- Di acqua ce n’è quanta ne serve per
affogarsi. Continua con la tua storia.
Lo so, il fatto che il Capitano
Hoppiter mi stesse lì vicino, in questo momento, me lo sto racconto da solo, e
sono contento.
Recepii l'ordine. Guardai negli
occhi il maiale, che continuava a specchiarsi nei miei bottoni, anche dopo che
avevo cambiato posto. Ogni tanto faceva degli strani movimenti, si girava di
schiena, ma una schiena disforme, dava l’impressione di una grossa zucca rosa,
per poi ritornare a specchiarsi leccando, di tanto in tanto, i bottoni della
mia giubba.
Continuai. «Nel cinema, spesso si
vedono mani tremanti che afferrano un’arma da fuoco, ma non è vero. In quei
momenti, in un attimo, il sangue ti si coagula dentro le vene e il cuore smette
di pompare. Sembra quasi che voglia anticipare la possa immobile del cuore che
dovrai centrare. La sua sospensione fa precipitare in un black-out cardiaco
l’intera specie vivente. Tutto ti dà la forza. “Ruggero Caporossi! Ci siamo…”
era l’ordine perentorio del capitano Hoppiter. Allora, io prendo il fucile, con
tutta l’energia che conosco, e lascio andare il dito sul grilletto, subito:
prendo la mira: ho cura solo di una cosa… che la sagoma smunta controluce di
quell'uomo alto non sia quella di mio padre… in questo marasma, può accadere di
farlo fuori per sbaglio.
Non ho mai tremato, e ascolto
sempre il mio sparo che sibilante attraversa l’aria, e anche quello del
capitano Hoppiter. Quell'uomo alto cadde di certo morto, con la faccia a terra,
mormorò appena un madre santissima e rotolò nella triste polvere
inzaccherandosi con il sudore e il sangue.
Perché c’è questo silenzio subito
dopo? Tu lo sai?» – il maiale non rispose, ma mi guardò negli occhi e annusò la
mia barba. «Mi ammazza ogni volta. Mi viene una tale rabbia, di lui, di quelli
tutti. Un povero cane muore e gli altri non aspettano, non… E in ogni parte,
intanto, la sparatoria ha inizio.
Il diciassettesimo reggimento
rimbombò, capitolò come un fuscello di steppa infuocato dal sole. Parlavano
solo mitraglie e fucili: il 91 tedesco, il moschettone, il cablain. Tutta
un’orgia balla nuda. Era una festa di guerra.
Debbo aggiungere? Sparai la mia
parte. Poi, presi fiato».
Continua…
leggi qui (1# parte), (2# parte)
Foto: Animal Equality
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