Farsi una pippa è come giocare con i Lego?








di Luigi Furno


La Pedagogia, un po’ come la Sociologia e la Psicologia, è una scienza impura - l’epistemologo Thomas Kuhn le chiamava quasi-scienza - in quanto con lo statuto metodologico scientista, oggettività ed ininfluenza dell’osservatore sul fenomeno, ha parecchi punti di divergenza. Diciamo che il suffisso logia, parola greca che presenta un ampio spettro di significati, è stato applicato forzosamente al termine Pedagogia, derivante dal greco Παιδ-αγôγός (Pedagogo) da Παϊς, Παϊδος (fanciullo) e Άγω (io conduco), più per darle un tono di rispettabilità accademica che ne potesse garantire la separazione come sapere isolato e quindi accademizzabile in facoltà universitarie. Il suffisso logia etimologicamente sta anche per “discorso su”. Questo, ne consegue, non fa della Pedagogia una scienza matura ma un “discorso su” l’educazione dei bambini e, come si può immaginare, i discorso possono essere di varie natura, non da ultimo quelli da bar.

Uno di questi discorsi da bar, da pedagogo della domenica, vorrebbe che ogni elemento, che ha come sua espressione ultima lo sfogo dell’aggressività, debba essere eliminato dalla vita del bambino. E via con discorsi moraleggianti da salotto televisivo sull’educazione, sul genere e sul ruolo che hanno i giocattoli nella formazione dell’identità sessuale. Le Barbie fanno della femmina una donna pronta per la prole, le pistole fanno del maschietto un uomo virile; per altri, invece, le Barbie formano delle future puttana e le pistole fanno del maschietto un futuro contrabbandiere internazionale di armi. Quale sia la verità delle due affermazioni è impossibile capirlo per colpa del democratico effluvio di opinioni del “discorso su”.

Stefano Bolcato, alla galleria GiaMaArt di Vitulano, del compianto Gianfranco Matarazzo, nel gennaio 2013, allontanandosi dalle semplificazioni della vox populi, si chiedeva provocatoriamente cosa producano, in termini di immaginario collettivo, i pacifici mattoncini della Lego.


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Raccogliendo i pezzi Lego dalla cantina, costruendo la sua opera, fotografandola e riproducendola olio su tela con una tecnica iperrealista ai limiti del fotografico, Bolcato riesce ad inceppare una scena archetipicamente ludica e ipostatizzare un discorso sulla cenofobia. Cenofobia, o horror vacui come dir si voglia, è una speciale forma di paura del vuoto che le opere di Stefano Bolcato riescono ad attivare egregiamente. Questo vuoto, che percepiamo, è la distanza che separa la nostra maturità personale, da adulto emancipato in una società che ha segregato la violenza alla marginalità deviante, dalla familiarità vissuta di quelle scene ritratte che ci rimemorano la nostra infanzia vissuta nella pienezza delle pulsioni aggressive. 

Quello che riusciamo a scoprire, attraverso l’autoanalisi dei dipinti, è un rapporto segreto e privatissimo che avevamo da bambini con gli oggetti. La riservatezza che avevamo – da tenere celata al mondo dei genitori e dei grandi in assoluto –, nell’animare oggetti inanimati di storie favolose infarcite di morte e sodomia, è stata il substrato che ha alimentato la formazione della nostra identità attuale, un autoerotismo regolato attraverso storie di giocattoli. Un animismo che in adolescenza abbiamo dovuto abbandonare per i cassettoni a tenuta stagna dei ruoli sociali.


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Non a torto, infatti, Bolcato ha preferito i pezzettini anonimi della Lego a quelli, già intrisi di riferimenti al mondo degli adulti, del Meccano. Il Meccano, infatti, con la sua mimesi del mondo ingegneristico, è già un gioco di erotizzazione maturo; non c’è scoperta del proprio corpo come elemento autoerotico, in quanto non ci sono le tracce di sex appeal per l’inorganico che i Lego riescono a liberare.

Il Meccano è un erotismo di genere perché ha già la tensione al ficcarsi nella vagina. La sua giocabilità è tesa alla finalità del pezzo compiuto, in questo è già ingegneria adulta, al cospetto della libertà fantasiosa che non conosce limiti e tabù sociali che invece sono connaturati alle costruzioni della Lego. Solo gli stolti si meraviglierebbero nell’affermare che l’autoerotismo adulto, con la sua natura onirica a occhi aperti, è perfettamente assimilabile al gioco. «Confezionato e condizionato, l’uomo è più “giocato” o più giocatore? Nel “cosificare” le vicende umane, Bolcato smonta la retorica liberticida di un’esistenza affrancata per statuto: “l’autocomprensione del proprio essere e della propria libertà” passa per il riconoscimento del gioco.»

Articolo pubblicato in origine su bMagazine.it

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