di Luigi
Furno
( - piccola premessa - .furiaLAB da
inizio, con questo primo “Dalla carne alla cenere”, alla rubrica “nera” Do
not Kill me please. In parte già pubblicate su bMagazine.it, ma rivedute,
corrette, ed ampliate, sono tutte storie di cronaca reale, veramente accadute e
recuperate negli archivi. Su questo grumo di verità, interviene solo la lima
della scrittura. La scrittura ha questa natura: è capace di piegare le cose ai
suoi movimenti e, come divertissement, di giocare equivocamente con la luce. In
queste storie si narrerà di una pulsione violenta e insana, ma profondamente
umana, che ripetutamente ritorna a ricordarci quanto è fondo l’abisso del
tragico. Saranno racconti del contrasto tra opposti. Ma non bisogna pensare,
come è opinione generale sul pensiero di Pascal, che i contrasti nascano dal
gioco di opinioni. Se una dialettica esiste, è quella della realtà stessa, che
ha il suo fondamento nella creazione originaria alterata e nel mistero più
abbagliante è più angusto, quello dell’unione delle nature di Gesù Cristo e del
Demonio. Nelle storie, che comporranno il puzzle completo “Do not Kill
me please”, tutto è indeciso. In esse si vive in uno sviamento perpetuo,
giacché aggrapparsi a qualcosa che presupporrebbe che ci sia qualcosa di
determinato da stringere, e dunque una separazione netta tra ombra e luce, tra
senso e non senso, insomma tra felicità e sventura, viene puntualmente negate
dai fatti reali. .furiaLAB vi augura buona lettura)
Nella casa della famiglia Izzo, sopra al caminetto, c’era un
libro appartenuto a Carmine Izzo, figlio di Agostino Izzo. Era un libro di
Guglielmo Ferri intitolata “La rivolta del figlio” con una pagina segnata dove
c’era scritto: “L’iniziazione al male, principio della virilità vera, era
cominciata”. Ci si lascia sempre qualche traccia dietro per giustificare e per
spiegare. Tracce che sono come delle puntate a dadi. Azzardi che sono
premonizioni e segni.
Raccontare di una morte violenta è come incamminarsi con una
vescica al piede. Punge inevitabilmente. I mass-media sono come un ago
ipodermico che si fanno passare per lenitivo. Fingono di bucarti la vescica per
rimetterti in camino. Fagocitano la morte impiantandola come discorso
lacrimoso. Il tutto, in tal modo, si riduce alla meccanica dei fatti:
all’impronta, alla saliva, al liquido seminale, ai plastici di certe
trasmissioni, alle musichette malinconiche ecc… Allora, la violenza con forza
viene scavata, traforata da tutti i lati, e disumanamente crolla a terra e da
qui dilaga, incontrollata, come un corso d’acqua che tracima dagli argini e non
si può far altro che aspettare che la piena passi. Così, la si subisce credendo
di esorcizzarla parlandone smodatamente
Quando la morte viene stampigliata in questo modo, sui
giornali e nella testa della gente, ti piega la schiena quasi a 90 gradi, come
una randellata. Questo modo di vendere lacrime precotte per tele-idioti sembra
inaugurare il congedo dell’umanità dalla posizione eretta.
Un omicidio ha bisogno di essere visto con il cannocchiale,
col telescopio, con gli anni luce di distanza; una lente di ingrandimento o un
microscopio, micronizzano irrimediabilmente la realtà, lacerano la crosta per
rendere vero e visibile solo un pulviscolo. Non si ha il tempo, sotto la pressa
emotiva, di archetipizzare la lettura. Accessorio diventa il pudore e i
confronti, su qualche barlume di riflessione, sono scambiati col vicino sul
pianerottolo, quello che domani sparerai lasciandolo esangue perché aveva
dimenticato il cancelletto aperto del condominio. Non ci si confronta con i
miti fondativi ma si ha il mito del prossimo come interlocutore qualsiasi.
Niente Edipo, fuori moda Tieste.
La Vespa in televisione, davanti o dietro non ha importanza,
non viene percepita come ronzio. Nessuno spruzza un po’ di insetticida nel tubo
catodico, ma si orecchia col fazzolettino del moccolo in mano, indignati per la
reazione incomprensibile. Si piange su una striscia di Gaza dei buoni
sentimenti; si prega il buon messia dell’apocalisse della violenza insensata.
Non mi interessa Avetrana, né tanto meno il profilo
psicologico di Michele Misseri. Se poi a farmelo è il Morelli di turno, il mio
non interesse diventa: “me ne fotto”. La mia dose di sangue la guarda col
binocolo, in un’emeroteca. La cerco in una piccola provincia dove la gente
pensa che la storia si produca altrove. Si aspetta che arrivi una scossa da un
centro che non c’è più.
Il mondo nel gennaio1958, a Tufara, si è rotto e questa
rottura ammala gli uomini e lascia sulle loro facce i segni di uno sfinimento
che non si sa come lenire.
La violenza, ho capito col tempo, è come un tumore. Ti
svegli una mattina e senti una pallina nel collo. La violenza è questa pallina
che la tua mente ha fabbricato mentre tu facevi altre cose. Questa è una storia
che chiede: “Perché?”. E, come le vere storie, inventante o no che siano, come
la buona teologia, ha solo domande e nessuna risposta.
Montesarchio, 18 febbraio 1958
Icilio, ultimo arrivato nella grande famiglia patriarcale
Izzo, rimase meravigliato che in casa non c’era nessuno. Più tardi giunse suo
padre. Attesero insieme, in silenzio. Per trentaquattro giorni hanno atteso
insieme che qualcuno tornasse.
Cala la sera sulla campagna di Montesarchio e il tempo cupo
e la pioggia, che scende fina fin dalle prime ore del giorno, inducono a
prestare fede alle tenebrose voci che si sono diffuse in paese: sull’aia della
casa di Agostino Izzo, lassù a Tufara, si agitano i fantasmi. Fantasmi neri, si
dice, scuri come la notte. I fantasmi sono di Filomena Cavuoto, di Francesco
Izzo e di Francesca Violanda che da trentaquattro giorni sono scomparsi di casa
e non hanno più dato notizie di loro. Partiti? Prigionieri di qualcuno? Morti?
Le domande vagano ma le risposte, silenziose, perforano i timpani.
Sull’aia, semplice e povera, c’è aria di morte: la casa
abbandonata, chiusa. Nella stalla ci sono gli animali e nessuno da loro da
mangiare. Icilio, il bambino di casa e figlio di una delle donne scomparse, è
ospite presso una famiglia di vicini. Suo padre Agostino e l’altro fratello
Carmine sono sotto stato di fermo, nella Caserma dei Carabinieri di
Montesarchio. Tira vento a Tufara, un vento freddo ed umido capace di aprirti
la guancia con una sua rasoiata. Passa attraverso le sconnesse imposte della
casa abbandonata e fischia, come un ululato di cuccioli di cane affamati. Si
comprende come di notte possa sembrare un lamento, un urlo di dolore.
Ma la fantasia non aiuta a comprendere i fatti, anzi, li
complica maledettamente. La cronaca, se la fate alla luce del sole, non è più
chiara, ma può sembrare meno lugubre. Su queste cose non si possono avere
certezze, non si sa ancora. Comunque, ecco la cronaca. Una cronaca desunta da
quello che sanno e dicono i Carabinieri e da quello che sanno, dicono e fanno
capire i paesani.
La famiglia di Agostino Izzo era composta oltre che del capo
famiglia, che conta 58 anni, dalla moglie, Filomena Cavuoto, di 52 anni, dei
figli Francesco, di 28 anni – sposato con Francesca Violanda, di 28 anni
anch’essa, di Apollosa – Carmine, di 25 anni, ed Icilio, di undici anni.
Trentaquattro giorni fa; Filomena Cavuoto, il figlio
Francesco e la nuora Francesca sono scomparsi da casa. Da quel momento essi non
hanno più fatto avere loro notizie, ne, fino a quel momento, essi avevano mai
accennato all’eventualità di un loro allontanamento da casa. La loro lontananza
o la loro scomparsa – come è più esatto dire – non è stata denunziata da
nessuno, né dal capofamiglia, né dagli altri figli. Si è parlato del fatto che
i familiari della giovane sposa, venuti a conoscenza della misteriosa
scomparsa, abbiano denunziato l’accaduto alla Questura di Benevento. Comunque
un fatto è certo: i Carabinieri di Montesarchio solo da pochi giorni si
interessano al mistero del quale sono venuti a conoscenza per caso, per aver
raccolto delle voci. Sotto la guida del maresciallo Giuseppe d’Amore, essi
hanno proceduto al fermo di Agostino Izzo e del figlio Carmine.
I Carabinieri hanno compiuto delle ricerche, sia presso
alcuni parenti degli Izzo, sia presso i genitori della giovane sposa, ma tutto
senza alcun risultato: degli scomparsi nessuna notizia. Ieri, poi, ha avuto
luogo, alla presenza dei familiari della Violanda e del fratello di Francesco
Izzo, un sopralluogo nella casa “del mistero”; un sopralluogo che, anche se in
apparenza non ha portato ad alcun risultato concreto, ha fornito alcuni
elementi utilissimi per il proseguo delle indagini, le quali, per il momento,
sembrano indirizzate più verso un omicidio/massacro che non verso un
allontanamento volontario dei tre.
Ma prima sarà bene seguire il racconto che, molto
succintamente, fa dell’accaduto il piccolo Icilio. Il giorno della scomparsa
era andato a scuola come sempre: il padre era a lavoro nei campi col fratello
Carmine; gli altri erano ancora in casa. Il bambino precisa che suo fratello
Francesco, essendo offeso ad un arto per una caduta da un ponte quando era
piccolo, non lavorava nei campi ma ha una piccola bottega di falegnameria in
paese. Il piccolo Icilio andò a scuola come sempre e fece ritorno verso l’ora di
pranzo. Trovò tutto chiuso: la porta di casa, la stalla, le finestre. La chiave
però, era al solito posto, accanto alla porta in un recipiente pieno di terra
che da sempre si trova lì. Icilio – piccolo smunto, magro in un paio di lunghi
pantaloni grigi – parla tenendo gli occhi sbarrati. Non ha un’espressione molto
intelligente. Prese la chiave ed entrò: non c’era nessuno in casa; la porta
della stanza di suo fratello e di sua cognata erano chiuse. Attese che
ritornasse qualcuno. Più tardi giunse suo padre: rimase meravigliato che in
casa non vi era nessuno. Attesero insieme, in silenzio. Per trentaquattro
giorni hanno atteso insieme che qualcuno tornasse; senza recarsi dai
Carabinieri. Un solo giorno Agostino Izzo non andò al lavoro per recarsi ad
Apollosa, presso i genitori della nuora, e per chiedere e fare ricerche presso
altri parenti. Niente, nessuna notizia. Ma, dai Carabinieri, nessuno si recò.
Per trentaquattro giorni: Agostino, suo figlio ed il bambino si sono tenuti
dentro la notizia. Poi, arrivarono i Carabinieri e la notizia esplose.
I tre, seguendo la logica, o sono stati ammazzati da
qualcuno oppure se la sono svignata. Altre ipotesi sono ancora più azzardate.
Consideriamo l’ipotesi della fuga volontaria. I tre se ne sono andati
volontariamente: Dove e perché? Forse, un motivo lo si potrebbe ricercare nel
fatto che i rapporti tra Agostino Izzo e la moglie non erano ottimi e, poiché,
nelle frequenti liti che si verificavano tra moglie e marito, il figlio
Francesco prendeva sempre le parti della madre, è da supporre che nemmeno i
rapporti tra padre e figlio fossero dei migliori. Dunque, se non andavano
d’accordo, si può anche supporre che i tre avessero desiderato di allontanarsi.
Ma per andare dove? Non risulta che essi avessero dei mezzi propri. Francesco
aveva la sua bottega a Tufara in cui aveva il suo carretto e la sua lambretta
oltre a tutti i ferri del mestiere. A quanto risultava, erano ancora tutti
nella bottega. Ammesso che i tre si fossero spontaneamente allontanati da
Tufara, è supponibile che portassero con loro almeno la biancheria intima.
Invece, l’intero corredo della sposina fu ritrovato al suo posto, compreso
alcuni oggettini d’oro che la giovane aveva tra la sua roba. Sembra che dalla
casa non sia scomparso nulla oltre i tre, nemmeno un spilla. Va ancora
precisato che la moglie di Agostino, Filomena, era attaccatissima all’ultimo
figlio. È possibile che la donna si sia spontaneamente allontanata senza
portarlo con sé?
Dati, dunque, gli elementi di cui la Giustizia era in
possesso, sembrerebbe da scartare, senz’altro, l’ipotesi dell’allontanamento
volontario. Rimane la tesi del massacro che, osservando gli elementi che
emersero, sembra la più plausibile. I rapporti tra Agostino, sua moglie e il
figlio non erano buoni. Secondo quanto si diceva in paese, a Natale i due si
erano finanche divisi - nel senso, cioè, che Filomena non dormiva più col
marito, ma si era ritirata a dormire nella parte della casa riservata al figlio
Francesco. Nei dintorni, i vicini dicevano che i componenti la famiglia Izzo
erano gente chiusa, non parlano con nessuno dei fatti loro. Se qualcuno si
recava da loro, parlavano, spesso, attraverso la porta chiusa.
Si fa notte a Tufara: siamo sull’aia con tanta gente che
parla, racconta, dice e non dice… arrivano adesso i Carabinieri, accompagnando
una ragazza e un giovanotto ed ancora un altro giovanotto. Tutti si allontanano
per un sopralluogo. I tre sono il fratello e la sorella della giovane
scomparsa.
Piove, annotta, tira vento. Mentre di sopra il maresciallo
ed i tre svolgono il sopralluogo, di sotto il piccolo Icilio ne approfitta per
accendere il fuoco, mettervi sopra il paiolo e preparare il mangiare per le
bestie che hanno fame. Da quando sono stati fermati Agostino e Carmine Izzo,
alle bestie nessuno pensa più. Hanno fame e accolgono con grugniti di
soddisfazione il cibo. Nella casa non c’è luce elettrica: si è sempre andato
avanti con le lampade a petrolio. Così, anche adesso, Icilio ne ha accesa una e
fa un poco di luce, una luce che manda sul muro ombre paurose. Intorno alla
casa tutto è silenzio, è buio… si ode solamente lo scrosciare della pioggia e
l’ululare del vento.
Di tanto in tanto, sopra, risuona pesante qualche passo: il
maresciallo e gli altri verificano il contenuto dei cassettoni, dei mobili, altro.
D’un tratto, si ode uno scoppio di pianto: Carmine Izzo è scoppiato a piangere.
Tra le lacrime balbetta: “Povera mamma mia…! Povera mamma mia…!”. Di sopra,
pare, hanno ritrovato un nodo scorsoio penzolante dal soffitto. Poi nulla più.
Ancora tanto silenzio e quel vento che fischiava come in un’ossessione. Alla
fine scendono tutti, il sopralluogo è finito. Tutto è stato trovato al suo
posto. “Quattro maglie aveva – dice la sorella della giovane – e quattro maglie
ci sono… tutto a posto… ‘e cazette stanno là…”.
Domani mattina, quando a Tufara sorgerà il giorno ed i
fantasmi della notte saranno andati via, il piccolo Icilio non sentirà più quel
rumore che ha inteso per tante notti, uno strano rumore come di pentolini che
battono l’uno contro l’altro.
Continua…
Nessun commento:
Posta un commento