Dalla carne alla cenere - (#1 parte)








( - piccola premessa - .furiaLAB da inizio, con questo primo “Dalla carne alla cenere”, alla rubrica “nera”  Do not Kill me please. In parte già pubblicate su bMagazine.it, ma rivedute, corrette, ed ampliate, sono tutte storie di cronaca reale, veramente accadute e recuperate negli archivi. Su questo grumo di verità, interviene solo la lima della scrittura. La scrittura ha questa natura: è capace di piegare le cose ai suoi movimenti e, come divertissement, di giocare equivocamente con la luce. In queste storie si narrerà di una pulsione violenta e insana, ma profondamente umana, che ripetutamente ritorna a ricordarci quanto è fondo l’abisso del tragico. Saranno racconti del contrasto tra opposti. Ma non bisogna pensare, come è opinione generale sul pensiero di Pascal, che i contrasti nascano dal gioco di opinioni. Se una dialettica esiste, è quella della realtà stessa, che ha il suo fondamento nella creazione originaria alterata e nel mistero più abbagliante è più angusto, quello dell’unione delle nature di Gesù Cristo e del Demonio. Nelle storie, che comporranno il puzzle completo “Do not Kill me please”, tutto è indeciso. In esse si vive in uno sviamento perpetuo, giacché aggrapparsi a qualcosa che presupporrebbe che ci sia qualcosa di determinato da stringere, e dunque una separazione netta tra ombra e luce, tra senso e non senso, insomma tra felicità e sventura, viene puntualmente negate dai fatti reali. .furiaLAB vi augura buona lettura)


Nella casa della famiglia Izzo, sopra al caminetto, c’era un libro appartenuto a Carmine Izzo, figlio di Agostino Izzo. Era un libro di Guglielmo Ferri intitolata “La rivolta del figlio” con una pagina segnata dove c’era scritto: “L’iniziazione al male, principio della virilità vera, era cominciata”. Ci si lascia sempre qualche traccia dietro per giustificare e per spiegare. Tracce che sono come delle puntate a dadi. Azzardi che sono premonizioni e segni.
Raccontare di una morte violenta è come incamminarsi con una vescica al piede. Punge inevitabilmente. I mass-media sono come un ago ipodermico che si fanno passare per lenitivo. Fingono di bucarti la vescica per rimetterti in camino. Fagocitano la morte impiantandola come discorso lacrimoso. Il tutto, in tal modo, si riduce alla meccanica dei fatti: all’impronta, alla saliva, al liquido seminale, ai plastici di certe trasmissioni, alle musichette malinconiche ecc… Allora, la violenza con forza viene scavata, traforata da tutti i lati, e disumanamente crolla a terra e da qui dilaga, incontrollata, come un corso d’acqua che tracima dagli argini e non si può far altro che aspettare che la piena passi. Così, la si subisce credendo di esorcizzarla parlandone smodatamente
Quando la morte viene stampigliata in questo modo, sui giornali e nella testa della gente, ti piega la schiena quasi a 90 gradi, come una randellata. Questo modo di vendere lacrime precotte per tele-idioti sembra inaugurare il congedo dell’umanità dalla posizione eretta.
Un omicidio ha bisogno di essere visto con il cannocchiale, col telescopio, con gli anni luce di distanza; una lente di ingrandimento o un microscopio, micronizzano irrimediabilmente la realtà, lacerano la crosta per rendere vero e visibile solo un pulviscolo. Non si ha il tempo, sotto la pressa emotiva, di archetipizzare la lettura. Accessorio diventa il pudore e i confronti, su qualche barlume di riflessione, sono scambiati col vicino sul pianerottolo, quello che domani sparerai lasciandolo esangue perché aveva dimenticato il cancelletto aperto del condominio. Non ci si confronta con i miti fondativi ma si ha il mito del prossimo come interlocutore qualsiasi. Niente Edipo, fuori moda Tieste.
La Vespa in televisione, davanti o dietro non ha importanza, non viene percepita come ronzio. Nessuno spruzza un po’ di insetticida nel tubo catodico, ma si orecchia col fazzolettino del moccolo in mano, indignati per la reazione incomprensibile. Si piange su una striscia di Gaza dei buoni sentimenti; si prega il buon messia dell’apocalisse della violenza insensata.
Non mi interessa Avetrana, né tanto meno il profilo psicologico di Michele Misseri. Se poi a farmelo è il Morelli di turno, il mio non interesse diventa: “me ne fotto”. La mia dose di sangue la guarda col binocolo, in un’emeroteca. La cerco in una piccola provincia dove la gente pensa che la storia si produca altrove. Si aspetta che arrivi una scossa da un centro che non c’è più.
Il mondo nel gennaio1958, a Tufara, si è rotto e questa rottura ammala gli uomini e lascia sulle loro facce i segni di uno sfinimento che non si sa come lenire.
La violenza, ho capito col tempo, è come un tumore. Ti svegli una mattina e senti una pallina nel collo. La violenza è questa pallina che la tua mente ha fabbricato mentre tu facevi altre cose. Questa è una storia che chiede: “Perché?”. E, come le vere storie, inventante o no che siano, come la buona teologia, ha solo domande e nessuna risposta.
Montesarchio, 18 febbraio 1958
Icilio, ultimo arrivato nella grande famiglia patriarcale Izzo, rimase meravigliato che in casa non c’era nessuno. Più tardi giunse suo padre. Attesero insieme, in silenzio. Per trentaquattro giorni hanno atteso insieme che qualcuno tornasse.
Cala la sera sulla campagna di Montesarchio e il tempo cupo e la pioggia, che scende fina fin dalle prime ore del giorno, inducono a prestare fede alle tenebrose voci che si sono diffuse in paese: sull’aia della casa di Agostino Izzo, lassù a Tufara, si agitano i fantasmi. Fantasmi neri, si dice, scuri come la notte. I fantasmi sono di Filomena Cavuoto, di Francesco Izzo e di Francesca Violanda che da trentaquattro giorni sono scomparsi di casa e non hanno più dato notizie di loro. Partiti? Prigionieri di qualcuno? Morti? Le domande vagano ma le risposte, silenziose, perforano i timpani.
Sull’aia, semplice e povera, c’è aria di morte: la casa abbandonata, chiusa. Nella stalla ci sono gli animali e nessuno da loro da mangiare. Icilio, il bambino di casa e figlio di una delle donne scomparse, è ospite presso una famiglia di vicini. Suo padre Agostino e l’altro fratello Carmine sono sotto stato di fermo, nella Caserma dei Carabinieri di Montesarchio. Tira vento a Tufara, un vento freddo ed umido capace di aprirti la guancia con una sua rasoiata. Passa attraverso le sconnesse imposte della casa abbandonata e fischia, come un ululato di cuccioli di cane affamati. Si comprende come di notte possa sembrare un lamento, un urlo di dolore.
Ma la fantasia non aiuta a comprendere i fatti, anzi, li complica maledettamente. La cronaca, se la fate alla luce del sole, non è più chiara, ma può sembrare meno lugubre. Su queste cose non si possono avere certezze, non si sa ancora. Comunque, ecco la cronaca. Una cronaca desunta da quello che sanno e dicono i Carabinieri e da quello che sanno, dicono e fanno capire i paesani.
La famiglia di Agostino Izzo era composta oltre che del capo famiglia, che conta 58 anni, dalla moglie, Filomena Cavuoto, di 52 anni, dei figli Francesco, di 28 anni – sposato con Francesca Violanda, di 28 anni anch’essa, di Apollosa – Carmine, di 25 anni, ed Icilio, di undici anni.
Trentaquattro giorni fa; Filomena Cavuoto, il figlio Francesco e la nuora Francesca sono scomparsi da casa. Da quel momento essi non hanno più fatto avere loro notizie, ne, fino a quel momento, essi avevano mai accennato all’eventualità di un loro allontanamento da casa. La loro lontananza o la loro scomparsa – come è più esatto dire – non è stata denunziata da nessuno, né dal capofamiglia, né dagli altri figli. Si è parlato del fatto che i familiari della giovane sposa, venuti a conoscenza della misteriosa scomparsa, abbiano denunziato l’accaduto alla Questura di Benevento. Comunque un fatto è certo: i Carabinieri di Montesarchio solo da pochi giorni si interessano al mistero del quale sono venuti a conoscenza per caso, per aver raccolto delle voci. Sotto la guida del maresciallo Giuseppe d’Amore, essi hanno proceduto al fermo di Agostino Izzo e del figlio Carmine.
I Carabinieri hanno compiuto delle ricerche, sia presso alcuni parenti degli Izzo, sia presso i genitori della giovane sposa, ma tutto senza alcun risultato: degli scomparsi nessuna notizia. Ieri, poi, ha avuto luogo, alla presenza dei familiari della Violanda e del fratello di Francesco Izzo, un sopralluogo nella casa “del mistero”; un sopralluogo che, anche se in apparenza non ha portato ad alcun risultato concreto, ha fornito alcuni elementi utilissimi per il proseguo delle indagini, le quali, per il momento, sembrano indirizzate più verso un omicidio/massacro che non verso un allontanamento volontario dei tre.
Ma prima sarà bene seguire il racconto che, molto succintamente, fa dell’accaduto il piccolo Icilio. Il giorno della scomparsa era andato a scuola come sempre: il padre era a lavoro nei campi col fratello Carmine; gli altri erano ancora in casa. Il bambino precisa che suo fratello Francesco, essendo offeso ad un arto per una caduta da un ponte quando era piccolo, non lavorava nei campi ma ha una piccola bottega di falegnameria in paese. Il piccolo Icilio andò a scuola come sempre e fece ritorno verso l’ora di pranzo. Trovò tutto chiuso: la porta di casa, la stalla, le finestre. La chiave però, era al solito posto, accanto alla porta in un recipiente pieno di terra che da sempre si trova lì. Icilio – piccolo smunto, magro in un paio di lunghi pantaloni grigi – parla tenendo gli occhi sbarrati. Non ha un’espressione molto intelligente. Prese la chiave ed entrò: non c’era nessuno in casa; la porta della stanza di suo fratello e di sua cognata erano chiuse. Attese che ritornasse qualcuno. Più tardi giunse suo padre: rimase meravigliato che in casa non vi era nessuno. Attesero insieme, in silenzio. Per trentaquattro giorni hanno atteso insieme che qualcuno tornasse; senza recarsi dai Carabinieri. Un solo giorno Agostino Izzo non andò al lavoro per recarsi ad Apollosa, presso i genitori della nuora, e per chiedere e fare ricerche presso altri parenti. Niente, nessuna notizia. Ma, dai Carabinieri, nessuno si recò. Per trentaquattro giorni: Agostino, suo figlio ed il bambino si sono tenuti dentro la notizia. Poi, arrivarono i Carabinieri e la notizia esplose.
I tre, seguendo la logica, o sono stati ammazzati da qualcuno oppure se la sono svignata. Altre ipotesi sono ancora più azzardate. Consideriamo l’ipotesi della fuga volontaria. I tre se ne sono andati volontariamente: Dove e perché? Forse, un motivo lo si potrebbe ricercare nel fatto che i rapporti tra Agostino Izzo e la moglie non erano ottimi e, poiché, nelle frequenti liti che si verificavano tra moglie e marito, il figlio Francesco prendeva sempre le parti della madre, è da supporre che nemmeno i rapporti tra padre e figlio fossero dei migliori. Dunque, se non andavano d’accordo, si può anche supporre che i tre avessero desiderato di allontanarsi. Ma per andare dove? Non risulta che essi avessero dei mezzi propri. Francesco aveva la sua bottega a Tufara in cui aveva il suo carretto e la sua lambretta oltre a tutti i ferri del mestiere. A quanto risultava, erano ancora tutti nella bottega. Ammesso che i tre si fossero spontaneamente allontanati da Tufara, è supponibile che portassero con loro almeno la biancheria intima. Invece, l’intero corredo della sposina fu ritrovato al suo posto, compreso alcuni oggettini d’oro che la giovane aveva tra la sua roba. Sembra che dalla casa non sia scomparso nulla oltre i tre, nemmeno un spilla. Va ancora precisato che la moglie di Agostino, Filomena, era attaccatissima all’ultimo figlio. È possibile che la donna si sia spontaneamente allontanata senza portarlo con sé?
Dati, dunque, gli elementi di cui la Giustizia era in possesso, sembrerebbe da scartare, senz’altro, l’ipotesi dell’allontanamento volontario. Rimane la tesi del massacro che, osservando gli elementi che emersero, sembra la più plausibile. I rapporti tra Agostino, sua moglie e il figlio non erano buoni. Secondo quanto si diceva in paese, a Natale i due si erano finanche divisi - nel senso, cioè, che Filomena non dormiva più col marito, ma si era ritirata a dormire nella parte della casa riservata al figlio Francesco. Nei dintorni, i vicini dicevano che i componenti la famiglia Izzo erano gente chiusa, non parlano con nessuno dei fatti loro. Se qualcuno si recava da loro, parlavano, spesso, attraverso la porta chiusa.
Si fa notte a Tufara: siamo sull’aia con tanta gente che parla, racconta, dice e non dice… arrivano adesso i Carabinieri, accompagnando una ragazza e un giovanotto ed ancora un altro giovanotto. Tutti si allontanano per un sopralluogo. I tre sono il fratello e la sorella della giovane scomparsa.
Piove, annotta, tira vento. Mentre di sopra il maresciallo ed i tre svolgono il sopralluogo, di sotto il piccolo Icilio ne approfitta per accendere il fuoco, mettervi sopra il paiolo e preparare il mangiare per le bestie che hanno fame. Da quando sono stati fermati Agostino e Carmine Izzo, alle bestie nessuno pensa più. Hanno fame e accolgono con grugniti di soddisfazione il cibo. Nella casa non c’è luce elettrica: si è sempre andato avanti con le lampade a petrolio. Così, anche adesso, Icilio ne ha accesa una e fa un poco di luce, una luce che manda sul muro ombre paurose. Intorno alla casa tutto è silenzio, è buio… si ode solamente lo scrosciare della pioggia e l’ululare del vento.
Di tanto in tanto, sopra, risuona pesante qualche passo: il maresciallo e gli altri verificano il contenuto dei cassettoni, dei mobili, altro. D’un tratto, si ode uno scoppio di pianto: Carmine Izzo è scoppiato a piangere. Tra le lacrime balbetta: “Povera mamma mia…! Povera mamma mia…!”. Di sopra, pare, hanno ritrovato un nodo scorsoio penzolante dal soffitto. Poi nulla più. Ancora tanto silenzio e quel vento che fischiava come in un’ossessione. Alla fine scendono tutti, il sopralluogo è finito. Tutto è stato trovato al suo posto. “Quattro maglie aveva – dice la sorella della giovane – e quattro maglie ci sono… tutto a posto… ‘e cazette stanno là…”.
Domani mattina, quando a Tufara sorgerà il giorno ed i fantasmi della notte saranno andati via, il piccolo Icilio non sentirà più quel rumore che ha inteso per tante notti, uno strano rumore come di pentolini che battono l’uno contro l’altro.


Continua…


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