Teatro - “Dissonorata – Un delitto d’onore in Calabria”


 di Luigi Furno

“In qualche luogo bruciano re, / in qualche luogo girano ruote, / corrono treno, / si vincono guerre, / si fanno cose / in qualche luogo lontano da qui, non qui. / Qui noi dipingiamo paraventi. / Sì… la composizione di paraventi”. Così, in un suo musical dal titolo Pacific Overtures, Stephen Sondheim tratteggia il Giappone del 1853, subito prima, cioè, che le cannoniere americane forzassero i suoi porti, aprendolo al mondo. È lo schizzo di un paese appartato, calmo, autosufficiente, o, se si preferisce, la spiritosa caricatura dei suoi abitanti sognatori ed esteti, che dipingono serenamente paraventi mentre al di là del mare Europa e America si trasformano in civiltà industriale affrontano rivoluzioni e buttando le fondamenta per un loro fututo massacro.

È una rappresentazione che qualche volta gli stessi giapponesi hanno voluto dare di sé, e in questa ottica si può leggere la più famosa tra le loro immagine, La grande onda del grande artista Hokusai. A prima vista siamo dinanzi a una bella immagine di un’onda blu, mentre in lontananza si staglia impassibile la cima incappucciata di neve del monte Fuji. Sembra il simbolo di un Giappone senza tempo, ma in realtà La grande onda si presta anche ad altre interpretazioni. Se guardiamo un po’ più da vicino, si vede che la bella onda sta per inghiottire tre barche, mentre il monte Fuji è talmente piccolo che noi spettatori ci ritroviamo a pensare quello che verosimilmente pensano i pescatori terrorizzati: la costa è irraggiungibile. La grande onda è dunque un’immagine che trasmette precarietà e incertezza, e ci racconta la condizione psicologica del Giappone sulla soglia del mondo moderno, nel quale gli Stati Uniti lo stavano forzando ad entrare.


Questo esempio di rigor mortis, di stasi atemporale, nel grande flusso delle storie che compongono la Storia del mondo può essere ritrovato a differenti latitudini e periodi diversi a dimostrazione che il tempo storiografico e ben lungi dall’essere una topografia della linearità del tempo cronologico. Prendiamo per esempio il Sud Italia degli anni ’40/’50. È la storia complessa di una emarginazione compressa in un universo arcaico di regole esatte ed inviolabili. Una ipostasi tragica del vissuto su cui il regista Saverio La Ruina costruisce il suo spettacolo “Dissonorata – Un delitto d’onore in Calabria”. In questo spettacolo - esattamente come il Giappone della seconda metà dell‘ottocento o nella sintesi iconografica del dipinto Il carro da fieno di John Constable che col tempo si è trasformato nell’icona di un’Inghilterra rurale e preindustriale – le vite degli uomini vengono sperimentate in uno scontro insolubile tra la refrattarietà di una antica e arcaica violenza con la lama tagliente di una modernità che, come le navi di Matthew Perry, commodoro della marina americana in Giappone, vuole assolutamente sfondare i cardini della totale stasi del “è così da sempre” per inondare senza diplomazia un nuovo territorio fertile per atavica “ignoranza”.

L’ambientazione geografica, nella sua totale astrattezza, rimanda a una mansueta e squallida no man's land del più profondo “Sud del Sud dei Santi”. Un Sud che, come dicevamo per La grande onda di Hokusai, è già una rappresentazione di una inevitabile sconfitta e luogo dove l'ignoranza ha conosciuto una decadenza irrimediabile ormai, guadagnando un minimo di alfabetizzazione che gli permette di eleggere l'ignoranza al rango di liberazione e dove, nonostante si parli di camion sgangherati e fuoriserie di uno squillante color celeste, i problemi, gli scongiuri e la condizione stessa della donna appaiono succubi di uno spaventoso e animalesco atavismo.


Saverio La Ruina - un autore-regista calabrese di origini lucane conosciuto purtroppo solo ai veri appassionati ma il cui lavoro drammaturgico, lontano dai clamori ufficiali, sta affermandosi come una delle voci più originali - affianca alla tradizione del dialetto napoletano, che ha ricevuto l'imprimatur di dialetto ufficiale del teatro nazionale, a dispetto delle antiche glorie del veneto e del milanese, il suo calabrese stretto che insieme sa di sprezzatura contemporanea e di aderenza psichica ad un territorio.

Lo spettacolo, (Premio UBU 2007, Premio Hystrio alla Drammaturgia 2010, Premio ETI-Gli Olimpici del Teatro 2007) scritto e interpretato dallo stesso La Ruina, andato in scena per la seconda edizione di EFESTOVAL il Festival dei Vulcani al Cantiere Postiglione di Baia (NA), si apre con una scena completamente al buio. Ad accoglierlo sul palcoscenico, solo una sedia di paglia. Il palcoscenico lentamente verrà illuminato: non molto distante c’è Gianfranco De Franco, che si occuperà dalla coloritura musicale eseguita dal vivo.

Saverio La Ruina entra in scena vestito da donna e si ancorato a una seggiola di contenzione come un femminiello pazzo o un condannato alla pena capitale. L'autore-interprete, fin da questa preferenza del costume di scena, sceglie di liquidare la rappresentazione come fenomeno caricaturale. L’attore in scena è una donna ma non lo è nelle sembianze, non c’è caricatura nella voce, non c’è maschera o trucco che lo sottolinei, c’è solo un mantesino indossato sopra il normale abbigliamento di Saverio La Ruina. Questo basta, un mantesino che incorpora tutti i significati iscritti sulla carne delle donne del Sud che copre come un sudario il suo carnefice: l’uomo, l’innamorato, il violentatore, il fuoco, l’autore, il regista e tutta la trafila del sopruso del potere. Il mantesino è la patetica armatura che il “maschile”, psicanaliticamente, indossa come ultimo tentativo difensivo contro il gesto che lo accusa di oltraggio alla persona fisica e alla dignità umana.


La Ruina sceglie di non caratterizzarsi al femminile per evitare con cura la trappola del teatro en travesti e il filodrammatico, e testimonia il dramma della sua protagonista con gesti e toni equilibrati e sinottici che lasciano trasparire un lavoro di ricerca sulla traccia di una sintesi equilibratissima con l’ausilio di un lessico di rara sobrietà che non esclude una dolente partecipazione emotiva. Compressa in un universo arcaico di regole esatte ed inviolabili, la donna "dissonorata" di Saverio La Ruina subisce il suo destino non solo attraverso la violenza esplicita delle relazioni umane, ma soprattutto per aver fatto proprio nella coscienza il codice della privazione, della rinuncia, della mutilazione dell’identità. La scabra asciuttezza della scena – una sedia, e l’autore stesso che diventa la protagonista semplicemente indossando un grembiule sopra gli abiti maschili – non riduce la drammaturgia a "narrazione": il denso memoriale della donna non è fatto soltanto di parola, ma anzitutto di segni d'espressione, di gesti, di posture, di moti del corpo. La parola riporta una storia archetipica di "predestinazione" femminile in una comunità controllata da norme maschili. La scrittura è pacata, il ricordo rassegnato, puntellato di lenizioni; ma alla quiete del testo si oppone magistralmente il contrappunto del corpo, una danza inquieta e perpetua che smentisce continuamente la serenità del racconto, rivelando il tormento oscuro della protagonista che non riesce ad emergere nella parola. Un teatro che sembra perire nella propria architettura testuale ma che viene invece nobilitato da una scrittura scenica che, di contro a certe “affaccendamenti” troppo di moda ultimamente, travalica la troppo stretta categoria del teatro di testo.

Così dice la Ruina: “Spesso, ascoltando le storie drammatiche di donne dei paesi musulmani, mi capita di sentire l’eco di altre storie. Storie di donne calabresi dell’inizio del secolo scorso, o della fine del secolo scorso, o di oggi. Quando il lutto per le vedove durava tutta la vita. Per le figlie, anni e anni. Le donne vestivano quasi tutte di nero, compreso una specie di chador sulla testa, anche in piena estate. Donne vittime della legge degli uomini, schiave di un padre-padrone. E il delitto d’onore era talmente diffuso che una legge apposita quasi lo depenalizzava.”


Su queste basi si snoda la vicenda di Pascalina, contadina illetterata e sconfitta dalla patria potestà familiare che si concede, senza conoscere la forza devastante del sesso, a uno sposo dannato a restarle in eterno promesso.

Sulla scena Pasqualina è un’anziana, seduta su una sedia, illuminata di taglio. Si abbandona a un flusso di parole seguendo, non linearmente, il flusso dei ricordi, accavallati dal tumulto dei sentimenti che quei ricordi riportano alla luce. Riannodando il filo della memoria, Pasqualina riannoda il suo destino. E quello di tutte quelle donne che, come lei, sono state vittime. Senza scelta, senza possibilità.

Lo spettatore viene così introdotto in un mondo dove le donne non camminano sole per il paese se non sono sposate, pena l’esser additate e abiurate e considerate delle “poco di buono”, delle puttane. Qui, le donne portano il lutto per tutta la vita, indossando abiti neri dalle lunghe maniche coprenti senza mai scomporsi, neanche di fronte al caldo afoso della bella stagione.

Fin da bambina Pasqualina è stata abituata a guardare a terra, camminando per strada contava le pietre: “cu a capa vasciata a cuntà i petri pi nterra”. Quello di Pascalina è un vero cursus honorum di pastorella. Man mano che cresce le affidano animali più grandi nelle dimensioni e più importanti nell'economia familiare. E l'unico svago, l'unico divertimento è quel viaggio in mezzo alle cassette nel cassone dell'ape guidato dal padre. In quella realtà Calabrese di montagna e arretratezza, in quei tempi non così indietro nel secolo scorso, le donne sono sempre a lutto, a volte persino “i lenzuoli sono nivuri”. Le donne non parlano tra loro, non si vestono, bensì “si coprono”. E Pasqualina è la terza figlia, per cui bisogna aspettare che le altre due si sposino (soprattutto la Teresina) prima di accasare lei. A causa di questa gerarchia, Pasqualina teme che l'uomo di cui è innamorata, e crede ricambiata, non la aspetti (in quegli anni di guerra c'è penuria di uomini “sposabili”). E lei non lo può sopportare, perché quando lo vede le sembra “che il cuore si rompe nel petto per quanto batte forte per amore”. E allora cede a lui che la tenta in continuazione. Ma lui la compromette e poi la abbandona.


Veniamo così a sapere che la protagonista, giovane donna che sogna il grande amore, rimane sedotta dall’uomo-promesso sposo e a lui si concede, anima e corpo, con la promessa che presto si sarebbero sposati. La cosa non accadrà e la sospensione di questa promessa rimane come un’ombra tossica che inquinerà tutta la storia. Pascalina rimane sola con un ventre che cresce pian piano. Questa solitudine è una lacerazione nello spazio scenico che si trasmette come un virus. Quando lapancia diventa impossibile da nascondere, la famiglia della giovane donna decide di “pensare a lei”, cospargendola di petrolio e dandole fuoco. Perché il paese parla e l’onore della famiglia va salvato a qualsiasi costo, anche della vita.

Epilogo, che assomiglianza alla Magnani nel Miracolo di Rossellini, la vede partorire nella stalla il nuovo Gesù delle favele di casa nostra sulle note di “Gracias a la vida” e di Pascalina che risponde in coro alla canzone: “che mi ha dato tanto…”

Lo spettacolo è prodotto da Scena Verticale, diretta da Saverio La Ruina, che è tra le più conosciute compagnie di ricerca emerse nell’ambito della gloriosa manifestazione calbiana Teatri90. La compagnia, che ha sede a Castrovillari, organizza annualmente a giugno il Festival “Primavera dei teatri”, ha da sempre tratto linfa vitale per i propri lavori dalla cultura del meridione e dal dialetto calabrese. 

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