Pinocchio parallelo - illustrazione

Illustrazione .furiaLuigi (Luigi Furno)


C’era una volta...
«Un Re...».
No...

Quale catastrofico inizio, quanto laconico e aspro, una provocazione, se si tiene conto che i destinatari sono i «piccoli lettori», i «ragazzi», soli competenti di fiabe e regole fiabesche. A scrutare tra gli interstizi di queste sette parole, si scopre subito una favola nella favola, qualcosa che è prossimo al cuore d’ogni possibile favola. Il «c’era una volta», è, sappiamo, la strada maestra, il cartello segnaletico, la parola d’ordine del mondo della fiaba. E tuttavia, in questo caso, la strada è ingannevole, il cartello mente, la parola è stravolta. Infatti, varcata la soglia di quel regno, ci si avvede che non esiste il Re. È difficile sopravvalutare l’importanza di questa frode iniziale. Con svelto gioco di prestigiatore, il favoleggiatore ha dato accesso sì al luogo della fiaba, ma di fiaba diversa, drammaticamente incompatibile con l’altra regale ed antica terra di fiabe, certificata dall’aureo cerchio di una corona. Buffo e poderoso, infantile e terribile, il Re tiene nelle sue mani volta a volta tremule, feroci, inesatte, prodigiose sempre, le leggi, i gesti, le parole della favola. Potrà questa sopravvivere alla scomparsa del suo senile ed eterno centro d’oro? È questo un tentativo di uccidere la fiaba?

Ma, in primo luogo, noi non sappiamo esattamente in che modo codesto Re «non c’era una volta». Sappiamo, vagamente che «non c’è»: condizione terribile, direi onerosissima, in un universo che si preannuncia labile, minatorio e stupendo. L’assenza del Re non solo non cancella, ma rende intollerabile potenza il luogo che al Re appartiene. L’avessero giustiziato, come si fa nella storia, sarebbe fola banale: un re giustiziato c’è; avesse abdicato, si fosse appartato o dato alla fuga, sarebbe condizione più sottile: giacché chiunque può sottrarsi alla Corona, ma la Corona sopravvive ad ogni fuga o rinuncia, e può anche attendere, e anche seguire un Re in acquosi e irti rifugi di tane e paludi. Ma «non esserci», sgradevole per tutti, per un Re sarà cosa intollerabile. Quanto destino, quali compiti per questo Oro Inesistente! Giacché la fiaba deve sopravvivere, e infiniti destini, inafferrabili immagini da sogno, debbono svolgersi fino alla loro conclusione. Il Re inesistente è infinitamente necessario e terribile.

Tuttavia, potremmo porre in altro modo il problema di codesta crucciosa e leggera inesistenza del Re: infatti, costui potrebbe non esserci in altre guise. Potrebbe aver scoperto che la «non esistenza» è la sua forma tipica e inattaccabile di esserci. Colpo di stato negativo: il Re ha scelto di non essere, farsi inattaccabile alle indagini filosofiche, alle pie aggressioni archeologiche, alle minute pedagogie della storia; privo di azione, ingiudicabile ed ingiudicante, presente nell’unica forma che gli consenta di essere dovunque, cioè l’assenza, egli si candida come irriducibile centro del c’era una volta; centro privo di dove, totalmente clandestino: trafiggila, l’armatura di nulla. A che fare domande a colui che non risponde?

Oppure, avvertendosi insidiato e detestato o sgarbatamente amato, avrà scelto di farsi clandestino. Potrebbe, dunque, essere nascosto in qualunque immagine, oggetto, personaggio; da questo, tramutarsi in quello; potremmo sospettarlo ovunque; tra poche righe, nel «pezzo di legno da catasta» o magari nel naso paonazzo di maestro Ciliegia. Non potremmo riconoscerlo con certezza, ma tener d’occhio, con garbo, là dove v’è traccia di buffonesco e di tremendo, una arcaica mescolanza di felicità e inettitudine: il Re fa delle pietre oro, e barberi di topi, ma non sa allacciarsi le scarpe. In ogni caso, ove lo conoscessimo, non potremmo andare oltre un taciturno ammicco di riverenza. Infine, possiamo fantasticare che il Re deliberatamente frantumatosi (esplosione? decomposizione cosciente? scheggiamento?) si sia commisto a tutto ciò che appare e scompare, divenendo, da Re, Regno; infedele luminescenza che troveremo dovunque, donde che sia pronta alla fuga furba e frodolenta: adescatore impudico e intoccabile, suggeritore di peccati impossibili. Se poi, per scrupolo, vorremo impastare assieme queste diverse ipotesi – che il re sia nulla, clandestino e sminuzzatamente ubiquitario – ne verrà che la favola sia essa stessa invisibile, regale, dovunque nascosta, e composta di quella imperitura e inattaccabile materia che noi diciamo «nulla».

...

Si suppone in genere che un «libro parallelo» sia un testo scritto accanto ad altro, già esistente libro, una lamina scritta che mima le dimensioni e forme di altra lamina, e ne insegue i caratteri, i segni, parte trascrivendo, parte traducendo, confermando, negando, ampliando; avrebbe dunque del commento, e da questo si distinguerebbe per la continuità, non frammentata a chiosa di singole parole, ma piuttosto atteggiata a parafrasi volta a volta pantografata o miniaturizzata, o al tutto deviata.
In realtà, chiunque si accinga al compito deliziosamente servile di trascrivere, decifrare, disenigmaticare – giacché scrivere in nessuno modo è possibile – presto si accorge che quella lamina che va graffiando, per quanto esile ed esigua, non è mai parallela all’esterno del libro; ed in breve anzi si accorgerà che la lamina ha un suo modo di conformarsi, per cui il «libro parallelo» è tale all’interno del libro che persegue. Insomma, si immagini che il libro di cui si vuol disporre la struttura parallela sia non già simile a lamina inscritta, ma piuttosto ad un cubo: ora, se il libro è cubico, e dunque a tre dimensioni, esso è percorribile non solo secondo il sentiero delle parole sulla pagina, coatto e grammaticalmente garantito, ma secondo altri itinerari, diversamente usando i modi per collegare parole e interpunzioni, lacune e «a capo». Non solo: ma le parole così usate saranno simili a indizi – tra delittuoso e criptico – che il libro si è lasciato alle spalle, o che si trovano sparsi nel suo alloggio cubico, ospizio di tracce, annotazioni, parole trovate, schegge di parole, silenzi. Un libro, rettamente inteso nella sua mappa cubica, diventa così minutamente infinito da proporsi, distrattamente, come comprensivo di tutti i possibili libri paralleli, che in conclusione finiranno con l’essere tutti i libri possibili. È chiaro, dunque, che sarebbe gretto tentare di dar le misure di codesto cubo leggibile all’interno, o di uno qualsiasi dei libri paralleli che vi si acquattano.
Si potrà chiedere perché Pinocchio sia così specialmente cubico; no: direi piuttosto che Pinocchio è altamente indiziario, che è un libro di tracce, orme, indovinelli, burle, fughe, che ad ogni parola colloca un capolinea. Il parallelista vive in esso la dissoluzione del cubo, alloggia tra innumerevoli prove, non sa di che. Questo sconcerto è essenziale. Esso gli consente di esercitare la regola aurea del parallelista, che è: «Tutto arbitrario, tutto documentato».

Testo di Giorgio Manganelli tratto da "Pinocchio: un libro parallelo" (Adelphi, 2002)

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