PORCO. - (#2 parte)





.furiaLuigi mira lo spettacolo del porco.







di Luigi Furno

( - piccola premessa - Porco. è un racconto proposto a puntate, a frammenti. Qui siamo alla seconda parte. In esso si presenta la fuga e la speranza del capitano Hoppiter, la bestialità di un porco e l’indecenza dell’io. In Porco. il pensiero è essiccato, demidollizzato. In esso, il “pensare” equivale a parlare senza sapere in che lingua si parli, quale retorica si usi, senza avere la più pallida idea del significato che la forma del suo linguaggio e della sua retorica sostituisce a quella su cui il “pensiero” vorrebbe decidere. Non ha forma. La poesia ha una forma; il romanzo ha una forma. Il Porco. è uno specchio che ci deforma. Il porco è un mistero che per noi può, in pieno giorno, apparire qualcosa che non sia giorno, qualcosa che in un’atmosfera di limpida luce rappresenti il brivido di terrore da cui il giorno è nato. Una bella follia: parlare. Grazie a questo, l’uomo danza su tutte le cose e al di sopra di esse. Buona lettura).


Chi sa se uno s'infiacchisce, per il fatto di avere paura? Io non andavo a caccia di morte, anzi, sarei stato molto meglio lontano da quella carneficina con le gole tagliate. Sicuro sono nato, e così sono fatto. Fu una raffica! Di colpo, tutto accade in un ai e bai, ma, quello che mi deve accadere io già lo so. Perché non ci vuole niente a morire. Un attimo di distrazione, e i progetti più accurati di un io forte giacciono riversi sul marciapiede. Quale “sistema immunitario” veglia su di me, giorno dopo giorno, mentre ingurgito alimenti conditi di virus, tossine, batteri? La mia pelle formicola di parassiti, come il dorso di un rinoceronte con i suoi uccellini.
Quando ero un mocciosino, ciò che con tanta efficacia mi sapeva proteggere era uno spirito custode e io mi guardavo bene dal mancargli di rispetto.
Tutti quei morti, che sono venuti e che dovevano ancora venire, stavano tutti nella testa del Capitano Hoppiter; come un progetto di strage definitiva. Lui coltivava la sua guerra come un terrore estremo, era la sua sorte di apocalisse in divenire perenne. Io non ho niente a che vedere con questo; io stavo soltanto obbedendo? Ebbene non era così? Il mio primo combattimento, d’imboscata. Il guaio di non avere abitudine a queste è il prima – un prima enorme, così prolungato.
Ho messo da parte la rosellina selvatica più spampanata per te, capitano Hoppiter, l’ho conservata perché tra tutte, era la più rara. Hoppiter, occhi di vacca, addio.
Sono solo adesso, e non c’è niente. Chiaroscuri che tendono al grigio uniforme e grugniti di maiali. La battuta alla grande caccia degli altri, dei nemici, ha stanato noi che avevamo un affanno che bloccava i polmoni. Ammutinare, adesso, diventa impossibile, segregato a guardare fuori come si muove attraverso quel filo di luce che filtra tra le assi di legno ammassate, contorte e rosicate dal sole e dal tempo, che fanno da parete occidentale della porcilaia. Sfucilati alla spalle come una pioggia di sassi, ma sassi appuntiti e metallici, io e il capitano Hoppiter abbiamo trovato rifugio nella casa dei porci.
Effettivamente, dovrei inventare una storia più particolare per dare un senso al perché, nei miei pensieri più reconditi, faccio morire Hoppiter nella casa dei porci come se fosse un porco. Mi piacerebbe chiamarla ambiguità. Un modo come un altro per rimanere solo col porco e trovarne il mio riflesso.
C’è un languore e un tremore negli occhi, tragicamente da cristiano, di questo maiale che mi preme il petto col suo zoccolo e con me, strano a crederci, ci parla. Con me parla di cose umane, della nostra comunanza nel destino. Non so come abbia fatto ad uscire dal recinto, che era dentro la porcilaia, ma di colpo mi si parò davanti con tutta la sua massa di grasso e l’ingordigia tipica della sua specie. Aveva un naso enorme, emetteva, a differenza degli altri che stavano chiusi, un grugnito flebile, sembrava quasi un bambino che ciuccia la tetta a qualcosa di estraneo dalla figura materna. Io non avevo mai avuto paura dei porci, ne avevo ammazzati e visti ammazzare tanti sin da quando ero un ragazzino; sapevo con perfezione il punto preciso della giugulare da tranciare col coltellaccio per non far soffrire, inutilmente, l’animale e dissanguarlo rapidamente. Sapevo a cosa era utile un maiale. Non era certo per darmi un tono che non avevo mai creduto alle dicerie che fanno del maiale un animale carnivoro, con una passione insana per la carne umana. Non avevo mai visto morire nessuno per mascella di porco, casomai il contrario.
Si avvicinò sempre di più alla mia borsa, che stava rovesciata in un angolo insieme a quella di Hoppiter, infilò il muso dentro e ne tiro fuori la cartucciera con i colpi arrotolandosela sul muso. Poi, cambiò direzione venendo verso di me. Si avvicino a tal punto al mio petto, che riuscivo a sentire l’odore marcescente del suo fiato, sembrava che volesse specchiarsi nella lucentezza dei bottoni della mia giubba. La cartucciera gli penzolava dal muso e mi dava piccoli colpi ripetuti sul basso ventre. Riuscii a vedere l’occhio riflettersi nel mio bottone, quando se ne uscì dicendo:
- Perché non piangi per quel tipo morto? Bisogna piangere i propri morti, io lo faccio sempre per i miei. 





Continua…


leggi qui la prima parte

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